Dopo il volume dello scorso anno dedicato ai Led Zeppelin, Il castello traduce in italiano, grazie a Riccardo Vianello, un altro bel saggio di Martin Popoff, critico canadese solitamente dedito al metal, che sceglie una formula vincente per evitare di scrivere il solito libro sugli album dei Pink Floyd, stavolta oggetto della sua indagine. E cioè, per ogni album preso in esame, Popoff convoca illustri esperti, che discutono fra loro rispondendo alle sue sollecitazioni. La formula talk show messo per iscritto funziona bene, anche perché, oltre ad alcuni addetti ai lavori meno noti al grande pubblico, musicisti di primo piano, che arricchiscono l’analisi con punti di vista inconsueti. Così Dennis Dunaway, bassista degli Alice Cooper dal 1962 al 1975, arricchisce la disamina di THE PIPER AT THE GATES OF DAWN e A SAUCERFUL OF SECRETS con vere chicche. Nel tour del 1968, gli Alice Cooper ospitarono infatti nella loro casa di Santa Monica i Floyd e Dunaway toccò con mano l’alienazione da LSD di Barrett, dallo sguardo fisso, come ipnotizzato, in cucina, totalmente estraniato da tutti. Ricorda la preoccupazione di tutti i Floyd, roadies compresi, per la salute mentale del fondatore; la diversità tra la cordiale chiusura inglese e l’estroversione americana; l’influenza di Astronomy domine su Levity Ball degli Alice (da PRETTIES FOR YOU, 1969); le consonanze tra Jugband Blues e lo stato mentale di Barrett. Steve Hackett, leggendario chitarrista dei Genesis, interviene a proposito di THE DARK SIDE OF THE MOON e THE WALL.
Hackett riflette su quanto la dura formazione scolastica inglese abbia messo a dura prova sia i membri dei Floyd che quelli dei Genesis: viene creata “gente di grande successo, ma anche gente fortemente menomata. E forse Syd era un po’ tutte e due le cose”. Per cui il tema “comune a quasi tutti i brani successivi al periodo Barrett” sarebbe “non tanto quello dell’unità, ma delle divisioni, di tutto ciò che separa le persone”. Paragona il modo di suonare di Gilmour a quello di Clapton. Steve Rothery, chitarrista originale dei Marillion, commentando WISH YOU WERE HERE e ANIMALS, riflette sulla pressione dell’industria sulla band e sul punto di forza dei Floyd, ovvero l’essere una squadra, non legati all’immagine di un singolo leader. Focalizza l’eccezionalità di Gilmour nell’uso di bending, vibrato e scelta delle note. Nick Beggs, bassista fondatore dei new romantics Kajagoogoo, ma poi al fianco di colossi del prog come Steve Hackett, Steve Howe, Rick Wakeman e Steven Wilson, dice la sua su ANIMALS, THE WALL e THE FINAL CUT. Paragona il primo, con i suoi durissimi testi di critica politica e sociale, alla rabbia iconoclasta del punk. Il solo punto debole starebbe nel suo rappresentare l’inizio della fine dell’unità della band.
Ma avrebbe anche il merito di introdurre una componente funk nel sound dei Floyd, in Pigs (Three Different One), grazie al tocco di Gilmour e al suono di Wright Jordan Rudess, tastierista dei Dream Theather, analizzando THE DARK SIDE OF THE MOON e THE WALL, mette in rilievo la grande maestria di Rick Wright: “È come se fosse il perfetto tastierista funzionale. Suona sempre la cosa giusta”. Ricorda come, a 22 anni, si ritrovò a essere convocato per suonare il rullante insieme a un gruppo di ragazzi al CBS 30th Street Studio di Manhattan per essere licenziato da Michael Kamen. Si tratta solo di esempi random, dato che anche i contributi degli altri intervistati impegnati nella discussione (Roie Avin di “The Prog Report”; Craig Bailey del programma radio “Floydian Slip”; Ralph Chapman, autore e produttore delle serie “Rock Icons” e “Metal Evolution” per VH1; Robert Corich, ingegnere del suono e produttore; Heather Findlay della prog band Mostly Autumn; Lewis Hall della tribute band Think Floyd; Paul Kahayas, polistrumentista; Ed Lopez-Reyes, collaboratore del sito ufficiale dei Floyd; Kyle Shutt, chitarrista dei metallari The Sword; e Jeff Wagner, critico di prog metal) sono di altro livello. Un’opera, come nella tradizione de Il castello, corredata da un impianto iconografico superbo. Unico neo, che suggerisco di correggere alla prima ristampa: per un qualche errore, da THE DARK SIDE OF THE MOON compreso (p. 107) in poi, la parola “side” è sempre tradotta in italiano (“lato”). Scherzi dei correttori automatici. Ma difetto infinitesimale, in un volume davvero ben fatto
Articolo del
24/11/2020 -
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