Molti sono stati i crossover tra mondo dell’arte e pianeta rock, quando quest’ultimo era nel pieno della sua spinta propulsiva, e cioè nel secolo scorso. Tra le tante, però, uno è senz’altro stato più importante di altri, forse di tutti: l’Exploding Plastic Inevitable Show, in cui le traiettorie della Pop Art di Andy Warhol e quelle dei Velvet Underground si incrociarono per dar vita a qualcosa di mai visto prima e di straordinariamente influente col senno di poi.
Eppure, stranamente, manca una bibliografia strettamente dedicata a un evento così rilevante, forse proprio a causa del suo carattere di ponte tra due mondi artistici differenti che finirono per crearne un terzo. Luca Palermo, dottore di ricerca in Storia dell’arte contemporanea presso la Seconda Università degli Studi di Napoli, cerca di colmare questa lacuna. È bene però ricordare cosa è stato l’Exploding Plastic Inevitable Show: “Uno spettacolo di luci, musica, colori e danza messo in scena, tra l’aprile del 1966 e il maggio del 1967, in varie città americane tra le quali New York, Chicago e Los Angeles”. Messa così non pare neanche chissà cosa. In realtà, lo spettacolo si definì attraverso una serie di step ed era qualcosa di veramente estremo: ballerini vestiti di pelle con fruste sadomaso, tre film di Warhol proiettati contemporaneamente, filtri di gelatine psichedeliche posti sui riflettori, luci bianche intermittenti che davano l’illusione che tutti fossero fermi, mentre in realtà ballavano, tre dischi diversi che suonavano contemporaneamente e, a un certo punto, i Velvet Underground che facevano il loro concerto letteralmente inghiottiti da quello che non era proprio un usuale ”spettacolo di luci e suoni”.
Il saggio di Palermo, di facile lettura, si fa apprezzare per due qualità: la scrupolosa ricostruzione dell’evoluzione dello show e delle reazioni ad esso, condotta su fonti di prima mano, e il tentativo di darne un inquadramento critico, di coglierne il succo. Palermo sostiene che lo spettacolo di Warhol anticipò di un anno le riflessioni esposte dal filosofo situazionista francese Guy Debord nel celeberrimo saggio “La società dello spettacolo”. Debord, peraltro, “aveva cominciato a ragionare sulla natura dello spettacolo contemporaneo già qualche anno prima” e “le sue teorizzazioni sembrano essere seguite quasi letteralmente da Warhol nella messa a punto dell’Exploding Plastic Inevitable”. In particolare, secondo Palermo, Warhol pare aver assunto come finalità e obbiettivo dell’EPI ciò che sarà poi la quarta tesi di “La società dello spettacolo”, secondo la quale “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini”. Immagini in cui peraltro da un lato i partecipanti all’evento scomparivano e grazie alle quali, dall’altro lato, emergevano come immagini essi stessi (i lampi di luce), quindi icone.
La natura stessa dell’EPI, inoltre, metteva fine alla distinzione tra artista, opera d’arte (qui l’evento artistico) e spettatore, dato che quest’ultimo ne diventava parte e creatore allo stesso tempo. Il punto debole del saggio di Palermo, comunque consigliatissimo, è non sviluppare a fondo e in un bilancio finale queste intuizioni, che appaiono comunque convincenti, ma rimangono disseminate nel corso del volume. Aggiungerei che nell’EPI si possono vedere distintamente le radici sia degli spettacoli che popoleranno le discoteche degli anni 80 e 90 (per cui rimando ad esempio all’ottimo “Riviera club culture. La scena dance nella metropoli balneare” di Pierfrancesco Pacoda, 2021, Nda Press) sia dell’odierna dinamica dei social network. Positive le otto pagine finali sull’equivalente italiano dell’EPI, lo spettacolo “Grande angolo, Sogni e Stelle” di Mario Schifano, che contengono testimonianze inedite.
Articolo del
22/06/2021 -
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