Esce in questi giorni in Italia Memoir - la mia odissea, fra rock e passioni non corrisposte, l’autobiografia di Stevie Van Zandt: chitarrista, cantante, autore, produttore, attore, attivista politico, conduttore radiofonico, musicista dai mille risvolti.
Nonostante Stevie sia noto al grande pubblico soprattutto per essere il chitarrista della E Street Band del suo grande amico Bruce Springsteen e per essere stato protagonista de I Soprano, una delle serie tv più popolari degli ultimi vent’anni, il suo percorso artistico attraversa mezzo secolo di storia non solo del rock, con la prospettiva sempre avvincente di chi non ha mai smesso di cercare la propria strada nel mondo, a costo di sacrifici, molte fregature, tanti rischi e qualche rimpianto.
Memoir è quindi una sorta di romanzo autobiografico che, come lo stesso autore ha raccontato nei suoi incontri di presentazione del libro a pubblico, stampa e radio nei giorni scorsi anche in Italia, si può suddividere in tre anime: quella del racconto della vita di Stevie dai primi passi nel natio New Jersey insieme all’amico Bruce sin da quando avevano 15-16 anni; quindi la sua decisione di ‘diventare’ Little Steven, pubblicare la propria musica e metterla a disposizione del suo attivismo politico, facendo i conti con il senso di delusione e di sconfitta, per rimettersi sempre in gioco; e una terza anima che permea tutto il racconto, quella della storia del rock and roll, partendo da Little Richard, che ne ha ispirato il nome d’arte Little Steven e che, diventato predicatore, ne ha officiato le nozze con la signora Maureen Van Zandt (a proposito del sottotitolo dell’autobiografia: l’unica sua passione corrisposta, a detta dello stesso rocker), passando letteralmente per 60 anni di cambiamenti nell’approccio alla musica, allo studio dello strumento, al mestiere di musicista, nelle tecniche di registrazione, nella realizzazione di un disco, di un live, di una produzione, ecc.
La storia di Steve come musicista si può dire inizi il 9 febbraio del 1964, in quella che lui definisce la prima delle sue tre epifanie (e non vi sveliamo quali siano state le altre due): il giorno della prima apparizione dei Beatles all’Ed Sullivan Show. Come scrive nel libro: il giorno prima non esistevano band in America, il giorno dopo in tutte le cantine d’America c’era una rock band! Per quanto Memoir non sia un libro sulla E Street Band, inevitabilmente Miami Steve, come veniva chiamato nei suoi primi anni con la band di Springsteen, finisce col raccontare come il percorso di Bruce sia stato in buona misura anche il suo, partendo dalla conquista dello Stone Pony, lo storico locale di Asbury Park dove tante cose ebbero inizio, proseguendo per la serie di doppie date al Bottom Line di New York nel ‘75, il successo di Born to run nello stesso anno, i tempi eroici e difficili di Darkness on the edge of town, fino ad arrivare a The River, il primo disco (dopo quelli, bellissimi, già realizzati a fine anni ’70 per Southside Johnny, altro amico e icona del New Jersey), dove finalmente la mano di Steve come produttore contribuì in modo determinante al sound della E Street Band.
Ma è proprio dopo questo disco del 1980, che pure sancì l’inizio del successo planetario di Springsteen e del suo gruppo, che nasce ‘Little Steven’: Stevie decide di lasciare la band, fondare i Disciples of soul, incidere le sue canzoni sui propri dischi, e soprattutto di impegnarsi attivamente nel denunciare, anche attraverso la sua musica, le contraddizioni d’America, ma non solo visto che uno dei suoi progetti più importanti, Sun City (singolo pubblicato nel 1985), coinvolgendo artisti importantissimi di tutto il mondo, autorità politiche, e opinione pubblica internazionale, contribuì addirittura a creare i presupposti per la liberazione di Nelson Mandela.
Senza rinnegare il suo attivismo sociale e politico (nel suo racconto non mancano i riferimenti alle sue battaglie a supporto dei nativi americani, o i dettagli con dovizia di suspense dei suoi pericolosi incontri con guerriglieri in Sudafrica, nella lotta contro l’apartheid), Stevie non nasconde di aver ripensato negli anni al distacco dalla E Street Band come un errore, proprio alla vigilia del successo planetario di Born in the USA. Quel distacco lo avrebbe portato a ricercare le sue mille passioni in produzioni discografiche anche con altri artisti di grande livello che, nonostante la dedizione e gli sforzi profusi, non hanno quasi mai portato al successo che lui si sarebbe aspettato. Una frustrazione fin troppo frequente, con la quale il nostro ha imparato a convivere nel corso degli anni, con il suo inconfondibile carisma e un pizzico di amaro disincanto. Anche perché, più o meno 15 anni dopo il suo abbandono, nel 1999 la sua avventura con gli E Streeters sarebbe ripresa, continuata negli ultimi vent’anni, e ancora oggi lo vede al fianco di Bruce e della sua leggendaria band.
Ma con questo libro oltre a sviluppare il racconto biografico, l’evolversi della sua vicenda personale raccontata sottolineando le grandi figure che ne hanno segnato l’esistenza (comprese le origini calabresi del nonno materno, Sam Lento) e anche di quelli che lo hanno deluso (due nomi su tutti, Paul Simon e Whitney Houston, entrambi legati a ricordi poco piacevoli nella vicenda Mandela), Stevie si diverte anche a provare a suggerire discussioni e dibattiti sulla società di oggi, la politica (molto interessante la sua ricetta per un mondo migliore in nove punti!), e sull’essere un musicista (“sono 5 le abilità da imparare per fare rock”). Non manca ovviamente la storia del suo rapporto con il mondo delle recitazione e delle serie TV, partita coi Soprano e proseguita con una assurda meravigliosa esperienza in Norvegia: Lillyhammer (la prima autoproduzione di Netflix in assoluto), mentre il finale del libro è affidato all’emozionante duetto sul palco dei Disciples of Soul con sir Paul Mc Cartney, nell’ultimo tour prima della pandemia.
E’ uno Stevie Van Zandt a ruota libera, quello di Memoir: vigoroso e appassionato nel ricordare gli anni d’oro della musica rock, gli anni ’50 e soprattutto i ’60 che lui definisce ‘il nuovo rinascimento’ della musica; divertito e anche emozionato nel raccontare gli incontri memorabili con veri e propri pezzi di storia come Muhammad Ali, ma anche Bob Dylan e Van Morrison, oltre ovviamente a Nelson Mandela; amaro ma mai pentito nel riportare qualche scommessa persa e i tanti amori inseguiti (c’è anche quello per il teatro e il balletto con una vera adorazione per Rudolf Nureyev) non sempre con l’esito sperato; disincantato, molto spesso ironico ma mai rassegnato nel ribadire la consapevolezza di non aver fatto niente solo per soldi, anzi, spesso di averci rimesso, anche per qualche scelta azzardata.
Pensando alla prima volta, recentissima, in cui ha realizzato due album consecutivi (Soulfire del 2017 e Summer of Sorcery del 2019) con la stessa band, in cui cioè è riuscito a dare davvero ‘continuità’ al suo lavoro, muovendosi come dice lui “in verticale”, e quindi pensando a band come Ramones o soprattutto gli Stones che di questo tipo di crescita hanno fatto un loro marchio di fabbrica, è lui a ribadire: “Quello che invidiavo era soprattutto la capacità di sentirsi appagati e soddisfatti in una sola disciplina creativa, e restarle fedeli. Sarà per la prossima vita”. Non è mai stato da lui sostare troppo in un posto, un’idea, una dimensione, una vita sola.
Nella prossima non sappiamo, ma in questa sei stato e sei ancora una bomba, Stevie!
Articolo del
19/10/2021 -
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