Franco Fabbri, per chi non lo sapesse, è stato uno dei più importanti musicisti rock e prog (e forse non solo) italiani. Membro degli Stormy Six dal 1967, ha contribuito a condurre la band dall’iniziale r’n’b al rock psichedelico, alla canzone d’autore politica, al progressive più spinto. In mezzo, il supporto al tour italiano dei Rolling Stones nel 1967 e un pezzo di strada fatto assieme a Claudio Rocchi.
In seguito, la fondazione nel 1974 della cooperativa L’Orchestra (prima del prog, arrivato nel 1977 con l’LP L’APPRENDISTA), quindi il passaggio a una dimensione europea con Rock in Opposition, movimento politico-musicale transeuropeo anticapitalista, e la stretta collaborazione con gli inglesi Henry Cow, di cui L’Orchestra diventa pure casa discografica. MACCHINA MACCHERONICA nel 1980 vince il premio della critica musicale tedesca, che lo preferisce a ZENYATTA MONDATTA dei Police. Due anni dopo lo scioglimento. Fabbri prosegue attività di musicista, ma dal 1981 ha iniziato quella di studioso di popular music a a livello internazionale, con docenza in diverse università italiane e straniere.
È proprio a questa attività accademica che appartiene questa raccolta di saggi (o papers, come li chiama lui), presentati prevalentemente in convegni e per metà originariamente scritti in inglese e tradotti appositamente per la pubblicazione di questo volume. Ne deriva una certa eterogeneità, che però Fabbri cerca di compensare dando una parvenza di percorso alla struttura del libro.
Si parte infatti dal tentativo di definire cosa si intende per popular music; si passa a una serie di saggi che ne illuminano momenti differenti della formazione, ad altri che ne analizzano generi, autori, modalità di fruizione; ci si inoltra terminare in ambito più teorico (le classificazioni per generi, le diverse tendenze degli studi musicali, il plagio); qua e là compaiono saggi sulla musica da film, sull’impatto delle tecnologie sulla produzione e sul consumo di musica, riflessioni sull’industria editoriale e discografica e sul diritto d’autore.
Si tratta di un volume decisamente interessante, anche se il carattere conferenziero degli interventi proposti è più volto ad aprire una discussione suggerendo aspetti e spunti alle riflessioni degli altri convegnisti che a suggerire risposte. Di qui anche il carattere un po’ sterile, per il lettore comune o il critico musicale, di alcuni (pochissimi) interventi, fitti di rimandi a riflessioni di altri studiosi. Ma in generale il volume è decisamente consigliato a chi voglia capire di più della popular music. Innanzitutto su cos’è: sostanzialmente (che Fabbri mi perdoni per il sunto estremo, se mai mi leggerà) la musica del popolo nata dalla "Rivoluzione industriale" in poi, la musica delle città, insomma, distante e imparentata allo stesso modo da e con la tradizione colta nobiliare dei secoli precedenti e e da e con quella folkloristica delle campagne.
Un concetto illuminante non solo in ambito strettamente musicale, ma anche di storia della cultura. Ho scritto città, ma in generale il processo di formazione della popular music è avvenuto ovunque si mischiassero tradizioni musicali etnicamente fortemente eterogenee, in qualche modo connesse al sorgere del processo della globalizzazione: si pensi al sorgere del blues nelle campagne del Sud degli Stati Uniti dalla fusione di tradizioni africane ed europee (di cui comunque Fabbri non parla); o alla nascita del rebetico, della musica napoletana e in genere mediterranea in un processo che vede unirsi suggestioni caraibiche, filtrate dal mondo maghrebino, comporsi alle tradizioni locali in un triangolo tra Napoli, Atene e Smirne, in cui il ruolo del leone lo fanno i musicisti napoletani (lo sapevate che O sole mio è una habanera? Per di più composta da un napoletano, sì, ma ad Odessa, aggiungo io).
Il libro di Fabbri è ricco anche di dati sorprendenti. Ad esempio, in epoca precedente all’invenzione dei supporti sonori il successo di una canzone è stabilito dal numero di spartiti venduti: e scoprire che nella Napoli di inizio Ottocento (quasi 500.000 abitanti) "Te voglio bene assaje" era capace di venderne 150.000 è sbalorditivo. Interessante il capitolo sul diverso impatto che giocoforza ha la stessa musica al momento della sua uscita e decenni dopo, di cui sono fatti esempio gli Shadows, e quindi sulla banalizzazione di un suono un tempo innovativo e ciò che lo può distinguere da essa, una volta avvenuta. Meno riusciti, a causa del loro carattere di stimolo a una riflessione durante un convegno, gli interventi sul beat (o bitt, come lo chiama Fabbri) e sul prog. Affascinanti invece i contributi sull’influenza delle colonne sonore dei film di fantascienza (in particolare quella di “Il pianeta proibito”) su psichedelia ed elettronica (semplifico) e sui concetti di influenza e di plagio.
Libro ricco di spunti, non solo per gli addetti ai lavori, ma per chiunque sia interessato alla storia della musica e della cultura
Articolo del
16/03/2022 -
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