Ci fu un tempo in cui i Dire Straits erano dei. Dopo MAKING MOVIES (1980), cominciarono i distinguo: LOVE OVER GOLD (1982), quarto album, mostrava ricerca di strade nuove ed epica grandezza, ma col senno di poi fu l’inizio della crisi con la critica e il pubblico più smaliziato. BROTHERS IN ARMS (1985) fu il loro più grande successo, ma di esso oggi tra i critici si mormora: “Orribile”. All’epoca di ON EVERY STREET, uscito il 9 giugno 1991, i Dire Straits, nonostante il successo del faraonico tour mondiale, erano giudicati dal pubblico più giovane e avanguardista come dinosauri sopravvissuti a un’epoca estinta: l’uscita nel secondo semestre di METALLICA, TEN dei Pearl Jam, SCREAMEDELICA dei Primal Scream e NEVERMIND dei Nirvana avrebbe messo una pietra tombale sulla loro esistenza.
Era ben chiaro agli stessi Dire Straits, come racconta il bassista John Illsley in questa bella autobiografia: “Dentro di noi Mark e io ci rendevamo conto di essere arrivati alla fine di una lunghissima strada”. Perfino il manager Ed Bicknell avrebbe detto: “L’ultimo tour è stato uno strazio totale. Di qualunque spirito dei tempi abbiamo mai fatto parte, ormai è passato”.
Già: di quale spirito dei tempi hanno mai fatto parte i Dire Straits? Da un certo punto di vista, di nessuno. In totale controtendenza, mentre nel mondo esplodevano in successione punk e new wave, riprendevano il classico suono americano rock blues alla J. J. Cale con una precisione filologica tale da far esclamare a Lou Adler, che li accolse al Roxy il 28 marzo 1979: “Ehi, non avevo idea che foste inglesi. Che figata. La musica sembra così, come dire, americana”. Da un altro punto di vista, sicuramente di quello strano giro di anni fra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, di cui i Dire Straits furono dominatori assoluti insieme ai Police, in una rivalità inventata che fu spazzata via da quella tra Spandau Ballet e Duran Duran.
Da quando sfondarono con MAKING MOVIES, l’album che li consegna di diritto alla Storia del Rock, i Dire Straits entrarono nel mainstream, e non eccentricamente come i Police, che proponevano un innovativo mix tra reggae e rock, ma nel solco della tradizione.
Questa autobiografia di John Illsley (bella, lo ripeto) ci fa scoprire che però le cose agli esordi erano molto diverse. Il primo tour fu di spalla ai Talking Heads, che nell’immaginario rock stanno agli antipodi dei Dire Straits: ma tra le band ci fu una stima tale che in un paio di occasioni gli inglesi si unirono agli americani per suonare “Psycho Killer”. Ancora prima di essere stati notati da qualcuno, gli Straits si esibivano nel contesto di festival punk, senza nessun problema con pubblico e musicisti. Dopo l’esplosione del primo album, non solo ricevettero i complimenti da un Keith Moon ai suoi ultimi giorni, ma notarono tra il pubblico pure uno strafatto Sid Vicious. Il primo tour europeo, di spalla agli alfieri del pomp rock USA Styx, vide freddezza e distacco tra le due band. Un’altra incredibile connessione sta nell’entrata della band del tastierista Alan Clarke, che doveva sostituire dal vivo Roy Bittan, della E-Street Band, che aveva suonato in MAKING MOVIES: Clarke era l’ex tastierista dei Geordie, da cui gli AC/DC avevano da poco “prelevato” Brian Johnson in sostituzione del defunto Bon Scott. Oppure: lo sapevate che Mark Knopfler produsse KNIFE, secondo album degli Aztec Camera, altra band che pochi assocerebbero ai Dire Straits?
John Illsley conduce la narrazione sul doppio piano della vita privata, distrutta più volte dagli impegni musicali e dai massacranti tour (l’ultimo durò 15 mesi), e lo fa sempre con garbo e offrendo aneddoti interessanti che danno l’idea della confusione in cui viveva la band: della partecipazione a Sanremo del 27 marzo 1981 racconta che si trattava di una gara televisiva controllata dalla Mafia (!), che metteva un palio un passaggio televisivo per il vincitore (!). L’hai capita un po’ male, John. Decisamente sbalorditivi, ma realistici e coerenti coi tempi, il ricordo dei concerti italiani del 1981, in un’atmosfera di guerriglia urbana, violenza pronta a scoppiare, intimidazioni e ruberie che il povero John interpreta sempre come mafiose e da cui non esce bene il compianto Franco Mamone. A Bologna, poi, il manager Paul Cummins “si ritrovò con una pistola puntata in testa dall’organizzatore locale”. Incredibili anche i racconti dei concerti in Jugoslavia del 1985, in un clima di violenza estrema tra spettatori che faceva presagire la guerra civile scoppiata nel decennio seguente. E apre l’ennesimo squarcio sullo sfruttamento dei musicisti da parte delle case discografiche il fatto che dopo MAKING MOVIES Illsley era felicissimo di avere finalmente i soldi per cambiare l’auto, comprandosi... una Porsche? Una Ferrari? Una Jaguar? Una Bentley? No, una Golf GTI.
Appassionante fino alla fine, la storia di Illsley e dei Dire Straits si conclude come già ricordato, ma con un episodio che diventa emblematico: a Madrid, in uno degli ultimi concerti, il 6 ottobre 1992, Illsley, in seguito a una brutta caduta, si taglia una mano. L’adrenalina è tale che non si accorge di nulla, si rialza e continua a suonare: “Mi accorsi che le persone più vicine al palco mi fissavano spaventate, con gli occhi in allarme e le mani sulle bocche. Mi girai verso le quinte e c’era Paul che mi faceva dei gesti frenetici perché andassi verso di lui. Alzai le spalle e feci una smorfia, perplesso, ma continuai, sorridendo ostentatamente, finché Paul indicò i miei pantaloni. La gamba destra era completamente inzuppata di sangue e avevo un brandello di carne bello grosso che mi pendeva dalla mano”. Illsley era all’ultima canzone: terminò il concerto. Medicato, nonostante i punti, suonò nei due concerti rimanenti. Quasi un segno premonitore. Leggetela: è una bella autobiografia. Ah, l’ho già detto?
Articolo del
09/04/2022 -
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