Noel E. Monk, che ci ha lasciato pochi giorni fa, era uno che veniva da lontano, dal crepuscolo dorato degli anni ’60: stage manager a Woodstock e al Fillmore East di Bill Graham, nonché roadie di Jimi Hendrix, Janis Joplin, Grateful Dead, Rolling Stones.
È stato il tour manager del leggendario tour dei Sex Pistols a gennaio 1978. Uscito vivo e vincitore da un simile massacro, a marzo accettò di seguire una nuova band che aveva appena firmato per la Warner Bros. nel primo tour dopo l’uscita di VAN HALEN, primo rivoluzionario disco della band. Monk non conosceva la band: gli fu detto che era forte e che la Warner se l’era aggiudicata per un tozzo di pane.
Accettò il nuovo incarico di tour manager, senza sapere quanto effettivamente era forte la band, non avendone mai ascoltato una sola nota. Quello che accadde nelle settimane successive avrebbe fatto sembrare il tour coi Sex Pistols una gita scolastica di alunni delle primarie; ma la musica della band gli rese chiaro che era di fronte a un’altra band che avrebbe cambiato la storia del rock.
Monk, da tour manager della band, divenne bene presto, su offerta degli stessi musicisti, loro manager: e durò nell’incarico fino al 1985, proteggendoli in ogni modo e vedendone di tutti i colori. Nonostante le sue indubbie capacità, accettò un contratto da rinnovarsi tacitamente di mese in mese; e quando le droghe e gli eccessi annebbiarono completamente le menti dei Van Halen, fu cacciato all’inizio del 1985: pochi mesi dopo, ad agosto, David Lee Roth se ne andò dal gruppo.
Questo è il secondo (e ultimo, ahimè) libro di Monk: il primo era stato "12 Days on the Road: The Sex Pistols and America". E racconta quella è presumibilmente la verità sui Van Halen: impietosa, ma mai rancorosa. Ho amato e amo molto i Van Halen; da ex chitarrista venero il genio di Edward, che considero il miglior chitarrista mai esistito, superiore perfino a Hendrix (e ce ne vuole), per una serie di ragioni che non è opportuno spiegare qui: ebbene, il confronto tra la genialità del musicista e la stupidità dell’uomo (pace all’anima sua), così come quella del fratello Alex, batterista, e del cantante David Lee Roth è sbalorditivo.
Innumerevoli gli aneddoti a proposito: dallo sperpero in divertimenti, droghe e donne di ogni loro guadagno, sperpero ben superiore a quello di altre band che hanno fatto la storia del rock, allo spaesamento che prende Edward a Parigi, a maggio 1978, quando la band ha per la prima volta tre giorni liberi e lui vuole tornare in USA perché non si sente a suo agio in Europa. Monk, come dicevo, non è preda del risentimento: tra i quattro Van Halen, quello a cui era più affezionato è proprio Edward, che ha dovuto prendere in braccio come se fosse un bimbo per consolarlo, più e più volte negli 8 anni in cui è stato manager della band; di Michael Anthony, bullizzato dagli altri e alla fine estromesso dai guadagni sui brani, ha solo rispetto; ha pietà di Alex e David, i più insopportabili della band, artefice del suo licenziamento il primo, pieno di sé all’inverosimile il secondo.
E infatti è toccante il racconto del tipo di famiglia da cui provenivano Alex ed Edward Van Halen: padre alcolizzato, che inizia all’alcool i due fratelli, perché incapace di avere rapporti umani con il prossimo se non quando era completamente sfatto; madre malata mentale, con una fobia paranoide clinica nei confronti dei testimoni di Geova. Alex e Edward, sull’esempio del padre, crescono alcolizzati e rimangono per sempre bambini; dopo il successo stellare, da semplici immaturi si trasformano in capricciosi e viziati oltre ogni dire. Led Zeppelin e Stones, negli anni dei loro eccessi, paiono degli assennati signori di mezza età. A ciò si aggiunge un rapporto conflittuale, secondo solo a quello dei fratelli Gallagher: gelosia e botte, insulti in olandese, risse seguite da lacrime e riappacificazioni. Questo memoriale, assolutamente consigliato e indispensabile per gli amanti della band, scritto bene, seppure sempre con il tono del manager americano sicuro di sé, non comunica il senso della gioia di vivere e dell’eccesso liberatorio che si incontra leggendo le biografie di altre band classiche: c’è sempre un’ombra cupa, distruttiva, di un’insensatezza di rara stolidità sullo sfondo, inquietante.
Eppure non vi farà amare di meno la band: nel leggere queste pagine non solo risuonano alla mente le perle dei Van Halen, ma la loro genialità risalta ancor di più: com’è possibile che una massa di decerebrati simili abbia prodotto musica così buona, innovativa e influente?
Articolo del
16/04/2022 -
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