Cercare accordi, andare a tempo con gli altri, è il segreto di una vita davvero speciale che Mauro Pagani, 76 anni, polistrumentista, compositore, direttore d’orchestra, ci racconta in un libro “Nove vite e dieci blues, (Bompiani, 222 pagine, 17 euro), dove l’autobiografia si dipana con il passo di un romanzo.
Una vita di incontri e di fughe: l’allontanamento da casa, il distacco volontario dal successo raggiunto, il trasferimento a New York, le passioni, l’attenzione per gli altri. Dal rock della Pfm con cui aveva avuto successo in America alla poesia di De André, dal Festival di Sanremo all’impresa delle Officine meccaniche, uno dei maggiori studi di registrazione audio e video. Un padre autoritario capace di spaccargli in testa il violino per poi portargliene uno dopo due ore dopo da cui ha imparato l’importanza di studiare. E non poteva essere diversamente per chi veniva dagli anni Sessanta quando all’esame di maturità – al liceo classico – si portavano le materie di cinque anni. Un diploma – dice – che oggi potrebbe equivalere almeno a una laurea triennale. La storia di Mauro è intrecciata con i cambiamenti dell’Italia, dalla rivoluzione beat al rock dell’impegno, quando la musica faceva parte del bagaglio culturale di ogni ragazzo.
Non si è fatto mancare niente, Pagani, andato via da casa a diciotto anni in giro per il mondo, partito in autostop con cinquemila lire in tasca. On the road, sulle ali di Kerouac, dei poeti della beat generation e di Bob Dylan. Erano gli anni in cui debuttavano discograficamente i Pink Floyd, i Doors, Jimi Hendrix, i Traffic, Janis Joplin, i Procol Harum. In America avevano esordito Frank Zappa e i Jefferson Airplane; in Inghilterra i Cream e John Mayall e i Bluesbreakers con Eric Clapton senza contare i Beatles. E tutti loro travolsero il mondo con una nuova onda sonora. Nasce il sound delle piazze, canti di lotta, di rabbia e di poesia diventano la colonna sonora dell’Italia nella convinzione che la musica contribuirà a cambiare il mondo. S’innalzano allora alcune frontiere musicali: gli Area con i loro pezzi d’avanguardia in cui dimostrano di aver intuito tante cose che sarebbero state suonate dopo; Demetrio Stratos, maestro della voce che praticava la diplofonia, una tecnica vocale della Mongolia che consente ad alcuni solisti di emettere contemporaneamente due voci distinte, una che accompagna e una che sale altissima modulando melodie inimitabili.
E poi il rock progressivo con il quale la Pfm scala le classifiche americane. Pagani compone “Impressioni di settembre”, la canzone che ha una caratterista dirompente per l’epoca: il ritornello non è cantato ma suonato con il moog; in America il brano “È festa”, un trionfo del suono, diventa “Celebration” e il gruppo scala le classifiche. Dura sette anni l’avventura da rockstar condivisa con Di Cioccio, Mussida, Dijvas ma, giunto all’apice del successo nel 1977, Pagani lascia la Pfm. Dopo aver girato gli States, si pone una domanda: “Che cosa vuoi fare da grande”? La risposta è il musicista e Pagani ritiene di saperne troppo poco e di dover studiare, non vuole continuare a cantare tutte le sere “Impressioni di settembre”. Un’altra vita gli si spalanca davanti portandolo a passo lieve verso la musica del mondo di cui allora nessuno sapeva niente. Non esisteva Internet, la radio non trasmetteva musica etnica, i dischi bisogna andare a comprarli in Grecia o in Africa.
Mauro compone anche colonne sonore e per una di queste, commissionatagli da Gabriele Salvatores per “Sogno di una notte di mezza estate”, Pagani si chiude nei mitici studi di registrazione del castello di Carimate dove, nello stesso periodo, Fabrizio De André registrava il disco dell’Indiano. Nel castello, comprato a caro prezzo dal discografico Antonio Casetta, gli artisti potevano soggiornare e a una certa ora del pomeriggio – per Fabrizio prima mattina – si susseguivano gli incontri tra Pagani e De André. Si erano conosciuti molti anni prima durante la registrazione di un disco di Faber, “La Buona Novella”, quando i turnisti in studio erano gli stessi musicisti che avrebbero fondato la Pfm. Ma da allora non si erano più rivisti. Pagani scherza: “De André mi volle per la tournée dell’Indiano perché, essendo io un polistrumentista, prendendo me poteva risparmiare un po’ di soldi”. In quei giorni al castello di Carimate tra i due nacque un sodalizio autentico, si capivano al volo. Pagani ha sempre sostenuto di aver imparato tanto da Faber a cominciare dalla scrittura delle canzoni: “La prima regola di Fabrizio era quella di non dare mai giudizi. Lui non dice chi è Bocca di rosa” … L’altra lezione la ebbe quando il capolavoro che avrebbe cambiato il corso della musica, “Creuza de ma”, fu pronto.
Fabrizio aveva scritto tutti i testi, Pagani la musica e pensava di dover ancora arrangiare quei sette pezzi che sembravano poco più di un provino. Fabrizio invece fu netto: “Il disco è questo, non c’è bisogno di aggiungere niente”. La musica vera non necessita di orpelli, sobrietà per un disco a cui all’inizio nessun discografico credette; David Byrne dei Talking Heads lo avrebbe indicato poi come uno dei dieci migliori dischi del decennio nel mondo. Nelle tante vite di Pagani c’è il capitolo delle Officine meccaniche, gli studi di Milano dove passa buona parte della musica di oggi e dove vivono ancora le utopie seguite da un ragazzo bresciano che si definisce il più terrone dei lombardi. Quel ragazzo che ama Napoli e anche per questo ha riscritto in chiave etnica gli arrangiamenti dell’Antologia napoletana per Massimo Ranieri; che ama la Sardegna e la sua musica sino a frequentare un corso di Launeddas, e ama la Liguria dove ha un rifugio.
Un uomo capace sempre di ricominciare da zero: solo qualche anno si era trasferito a New York per cercare nuovi accordi, ascoltare ed esibirsi nei piccoli locali per il gusto di suonare con altri artisti americani. Quattro anni passati di recente in una casa a poca distanza da Chinatown, dal Village e da Little Italy sino a quando si chiuse anche la pagina di quella vita. Poi due anni fa l’incidente: “Ero a casa”, racconta Mauro, “vidi il volto di mia moglie frangersi in diversi pezzi. Andai in ospedale e mi venne il coccolone”. Al risveglio nomi, facce, episodi erano scollegati. Era giunto il momento di ricostruirli in un libro: una foto di gruppo con un musicista. Da allora la sua vita è cambiata ma solo in apparenza: “Studio, scrivo, rifinisco e definisco ogni nota e alterazione godendo del piacere di immaginarmi come verranno eseguite e interpretate”.
Nove vite in attesa di una nuova fuga.
Articolo del
25/10/2022 -
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