Pino Strabioli e Morgan lo hanno presentato in una puntata di “StraMorgan”: e, grazie a loro, in RAI si è parlato di un libro che parla di musica perché è bello e necessario e non perché è firmato da qualcuno che scrive sui grandi quotidiani.
“L’anello di Bindi”, con prefazione di Paolo Rumi, pubblicitario e storico attivista per i diritti LGBT+, parte dalla storia del cantautore genovese, la cui carriera fu stroncata da una diceria nel 1961, e arriva all’outing di Tiziano Ferro nel 2010. 50 anni in cui, attraverso una panoramica delle canzoni italiane che hanno trattato l’omosessualità, è cambiato tutto o quasi.
La parte del leone la fa la storia di Bindi, cui sono dedicate 40 pagine, dal contenuto e dalla prosa commoventi, che partono dal ricordo personale dell’autore, che incrociò nel 1987 il cantautore a fine carriera, nella prima serata delle quattro che avrebbe dovuto tenere alla discoteca Ai Pozzi di Loano, e che si svolse di fronte a una platea deserta, con il solo Molteni, nelle vesti di membro della security, a bearsi di tanta arte.
Quindi un flashback al Sanremo del 1961, cui Bindi partecipò con “Non mi dire chi sei”, eseguita perfettamente, cantata benissimo, interpretata con pathos. Ma quel vistoso “anello d’oro con un luccicante solitario”, quel non so che di affettazione ambigua, le voci che giravano nell’ambiente fecero uscire sulla stampa di provincia, i giorni successivi, le prime allusioni a ciò che non si poteva essere, in quei primi anni Sessanta italiani, e che a Pier Paolo Pasolini, che aveva affermato di esserlo, era costato già diversi processi.
Pasolini era un uomo che cercava lo scandalo e che, pur soffrendo per i processi, andava dritto per la sua strada; Bindi era invece un uomo delicato, cui pesava nascondere la propria condizione (cui aveva già alluso nel 1958 in “Il confine”, lato B di “Appuntamento a Madrid”), ma incapace di sostenere la perdita di credibilità che derivava dal forzato e alluso coming out imposto dalla stampa. E d’altronde, era difficile all’epoca trovare serate con quella fama. Ci sarebbero voluti dei manager disposti a sfidare tutto e tutti. E un carattere diverso da quello di Bindi, persona mite e sensibile, troppo sensibile.
Cominciò una spirale negativa fatta di crollo dell’autostima, blocco della scrittura, begli album in ritardo sui tempi, fino all’outing del 1988 al Maurizio Costanzo Show e alla partecipazione al Sanremo 1996, in coppia con i New Trolls, con un brano (e un album) prodotto da Renato Zero. Ma quelli non erano più i suoi tempi. Molto malato, assistito dal suo ultimo amore, Bindi si sarebbe spento nel 2002. Davvero l’Italia degli anni ’60 era così omofobica? In gran parte sì, in piccola parte no. Data al 1960 la leggendaria hit “Coccinella” del rocker Ghigo Agosti, un milione e mezzo di copie vendute: il pezzo si ispirava al prima travestito, poi trans, francese Coccinelle, popolarissimo/a in Francia. Agosti scrisse il brano nel 1956 e dovette sorbirsi 4 anni di rifiuti da parte dei discografici prima di poterla incidere. Nonostante il testo fosse genericissimo e presentasse delle allusioni comprensibili solo da chi sapeva a chi si era ispirato l’artista lombardo, il brano non passò mai in RAI (unica emittente radiotelevisiva dell’epoca). Ok, vendette moltissimo: ma quanti avranno capito di cosa parlava?
E infatti gli anni ’60 furono gli anni del sottinteso, come li chiama Molteni. Nei ’70 il primo a parlare esplicitamente di omosessualità in maniera non macchiettistica o stereotipata fu l’eterissimo Charles Aznavour, in una canzone tradotta anche in italiano. Era il 1972. L’anno prima era nato a Torino il FUORI! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano). Le due cose produssero un primo piccolo boom di canzoni in cui si toccava l’omosessualità in modo esplicito, destinato a crescere nel decennio, che vide anche i primi artisti dichiaratamente ed esplicitamente omosessuali (Ivan Cattaneo, Andrea Tich, Alfredo Cohen, Cristiano Malgioglio) o che in qualche modo hanno contribuito decisamente a sdoganare l’omosessualità, come l’ambiguo Renato Zero, cui Molteni dedica 15 dense pagine di analisi e testimonianze. Nonostante questo clima “liberato”, l’omofobia era ancora fortissima anche a sinistra, come testimoniano le feroci contestazioni a Cattaneo durante il Festival del proletariato giovanile del Parco Lambro a Milano nel 1975.
Altro autore su cui si concentra l’analisi di Molteni è Lucio Dalla, con pagine molto interessanti, ma che forse dimenticano la testimonianza di Gianfranco Baldazzi che ha parlato piuttosto di bisessualità, per quanto le parole dello stesso Dalla, riportate nel saggio, vi accennino. Altre pagine interessanti quelle dedicate al mondo lesbo, con Gianna Nannini (“la Renato Zero” al femminile) e Giuni Russo su tutte.
Il libro, pur stringato e intenzionato a fornire solo una panoramica dell’emergere delle tematiche omosessuali nelle canzoni italiane, è documentatissimo, offre spesso testimonianze inedite o seppellite dal tempo tra le pagine di qualche intervista perduta e, come già detto, risulta scritto benissimo. Interessante e consigliato sia dal punto di vista musicale che degli studi sociali. Complimenti
Articolo del
08/05/2023 -
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