Nella storia delle classifiche annuali degli album più venduti in Italia non si trova traccia della presenza di Joni Mitchell. È sintomatico: un’artista celebrata come pari a Dylan e Cohen, mai stata popolare da noi. Le classifiche, si sa, tutto certificano fuorché l’arte, altrimenti il cibo preferito da milioni di mosche sarebbe il migliore. In USA fu artista da Top Ten per un paio d’anni nei Settanta, ma non toccò mai il numero 1.
Tutto ciò è sbalorditivo e sintomatico al tempo stesso: l’artista che, a causa della polio infantile, inventò strane e magiche accordature per chitarra (le stesse che insegnò al suo breve amore David Crosby), che scrisse versi incantevoli e folgoranti, riconosciuta e omaggiata dai colleghi come influenza primaria e assoluta maestra (Prince e Janet Jackson, tanto per dirne due), che ispirò a Graham Nash una perla come "Our House" e regalò nel 1970 a CSNY una megahit come "Woodstock", inno della morente controcultura hippie, normalmente non piace alle masse.
Ci sono due aneddoti, in questa bella agile biografia della canadese compilata da Beppe Monighini, ex collaboratore del La Stampa, che fotografano questo paradosso. Il primo: quando nel 1988 venne a ritirare il premio Tenco a Sanremo, un caustico Michele Serra scrisse su “L’Unità”, recensendo la serata: “Joni canta per se stessa più che per gli altri. [...] Insegue la propria ispirazione lungo i sentieri dell’anima: sconosciuti a tutti tranne che a lei. [...] Suscita in pari grado ammirazione e distacco, rispetto e sonnolenza. [...] Dopo averla ascoltata dal vero, comprendiamo meglio perché, pur considerandola una straordinaria artista, non abbiamo mai comprato un suo disco”. Il secondo: quando a inizio anni ’90 David Freed, altro musicista canadese, le chiese come stava (“How are you?”), lei rispose: “Undevalued” (sottovalutata”).
Certamente non fu per le parole di Serra, che probabilmente Mitchell ignora, ma per il lento scivolare fuori dall’attenzione del pubblico che connotò tutti i suoi anni ’80. Altri tempi, certamente, da quelli della West Coast di cui fu una delle Signore; ma anche la conseguenza delle sue scelte artistiche personalissime, controcorrente e singolarmente avulse dallo spirito dei tempi, che la spinsero verso il jazz e una forma canzone sempre più eterea e poco orecchiabile, erede del Great American Songbook a modo suo, capace di mescolare folk, jazz, psichedelia, doo-woop e chi più ne ha più ne metta.
Monighini a-do-ra letteralmente Mitchell: lo dice esplicitamente (e vorrei ben vedere: perché altrimenti scriverne una biografia?), ma trasuda letteralmente dal suo modo di raccontarla, in punta di penna, tra l’orrore dichiarato per il gossip e l’apparente contraddittoria scelta di brevissimi e folgoranti aneddoti che agilmente danno l’idea di una vita, di un carattere, di una donna, di un’artista.
E quello che traspare, ammesso dallo stesso Monighini, è un carattere difficilissimo, capace di grandi slanci, ma anche rancoroso; capace di grandi collaborazioni, ma anche tremendamente snob, come quando, intervistata su chi avesse gradito di più incontrare tra i colleghi presenti al concerto-evento berlinese di The Wall, organizzato da Roger Waters, rispose: “Beh, avrei preferito incontrare Picasso”.
Per la cronaca, oltre allo spigoloso Waters, c’erano, tra gli altri, Marianne Faithfull, The Band, Van Morrison, per citare solo quelli più affini o che aveva frequentato in passato. L’autostima di Mitchell appare altissima, al confine con la superbia. Tuttavia la sottovalutazione del passato è stata ampiamente ricompensata dalle celebrazioni ufficiali della vecchiaia, che personalmente trovo sempre tristi, ma che hanno ridato un po’ di serenità a un’artista che da decenni ha scelto di vivere isolata. Ma si sa, a contare per noi dev’essere l’arte; la persona ne è solo un tramite e le sue debolezze non devono importarci.
In definitiva il giudizio sulla biografia di Monighini, benché stringata, non può che essere altamente positivo, proprio perché in grado di trasmettere il senso di una carriera e di un’esistenza, pur in poche pagine e a colpi di flash, peraltro magistralmente collegati fra loro a comporre un discorso fluido, raccordando le schede degli album e illuminando questi ultimi con le vicende della vita della protagonista. Bravissimo
Articolo del
17/05/2023 -
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