Perbacco, che libro! Frutto di un lavoro di ben cinque anni e di centinaia di interviste, dopo essere stato ridotto della metà, “Meet Me in the Bathroom” di Lizzy Goodman, giornalista musicale, ma anche di moda e cultura pop, si candida prepotentemente a essere il “Please Kill Me” della scena rock newyorkese tra 2001 e 2011.
Impresa perfettamente riuscita. La formula adottata è quella, ormai collaudata e di moda, del racconto orale, che snellisce il racconto dei fatti illuminandolo contemporaneamente da diversi punti di vista. Nonostante il libro sia fatto e scritto molto bene, ammetto di aver fatto fatica a leggerlo: un po’ per la colossale mole, un po’ perché non sono mai stato particolarmente appassionato della scena che ha prodotto Strokes, LCD SoundSystem, Interpol, Yeah Yeah Yeahs, Tv on The Radio, The Rapture, Kings of Leon e Vampire Weekend.
Ma so che i cultori di tale comunque degnissima scena hanno divorato il volume. Quelli citati non sono gli unici gruppi che compaiono nel testo: si affacciano The White Stripes, protagonisti bostoniani di una supposta rivalità con gli Strokes; gli scozzesi Franz Ferdinand; gli antesignani Jonathan Fire*eater; the Killers; the Moldy Peaches; the National. Ma il volume è sostanzialmente incentrato sui nomi fatti in prima istanza.
A posteriori, la scena risulta particolarmente significativa, a cavallo com’è stata tra il mondo pre-Internet e quello odierno dominato dai social. Nasce negli anni di Napster e dell’esplosione dei blog musicali, che fanno sì che band poco note al di fuori del loro quartiere raggiungano ben presto una notorietà prima cittadina e poi mondiale. Dalla lettura emerge anche come un ruolo importante nella fortuna della scena sia stato giocato dall’attentato alle Torri Gemelle, che ha creato una naturale solidarietà con la città di New York. Quindi, dal 2003, l’avvento di My Space, primo social, nel mio ricordo lentissimo e macchinosissimo, ma capace di dare una spinta a band come i Vampire Weekend, che rappresentavano già la seconda generazione della scena, quella cresciuta ascoltando i dischi degli Strokes: il loro primo disco, omonimo, uscì nel 2008, l’anno dell’esplosione dei social con Facebook.
Da lì è cambiato tutto. E qualche anno dopo, giunse la fine della New York bohemienne e debosciata in cui era nata la scena: come avviene ciclicamente a New York, la gentrificazione dei quartieri degli artisti ha contribuito a rendere vecchia una generazione e a far concludere un’esperienza. Non è un caso che Goodman abbia iniziato a lavorare al volume nel 2012, proprio come tributo, omaggio e testimonianza a un’epoca e una scena uniche e irripetibili.
Nel volume qualcuno avanza l’ipotesi che questa sia stata l’ultima grande scena rock a emergere. A mio avviso, è vero solo in parte: nella mia percezione l’impatto di Strokes e compari sulla cultura internazionale e su quella generazione è stato decisamente inferiore a quelle di Madchester, Grunge e Brit Pop, per me le ultime vere grandi scene significative del rock a livello mondiale e generazionale. Ma di certo, dopo di essa, solo fenomeni isolati, perché a scomparire definitivamente sono stati proprio i presupposti del rock: l’economia industriale; il desiderio all’interno delle nuove generazioni di differenziarsi, sostituito da una tendenza all’omologazione costruita dai social; il faccia a faccia concreto delle persone, sostituito dal dominio dei social e da una vita digitale.
C’è un’altra considerazione da fare: nella New York 2001-2011 non vi era differenza tra lo stile di vita dei musicisti, una volta divenuti rockstar o quasi, e quello del milieu socio-culturale da cui proveniva. È un’interessante estremizzazione di una tendenza già nata con Madchester e che ha finito, anche in questo, per annullare l’eccezionalità dei musicisti. D’altro canto, manca totalmente il gigantismo delle dissolutezze degli Stones o degli Zeppelin, proprio perché i soldi che giravano erano molti di meno: c’era Napster fino al 2002, poi ci furono BitTorrent, eMule, siti come The Pirate Bay. Ma soprattutto la musica cessava progressivamente di essere centrale nella definizione dell’identità degli adolescenti e dei giovani, in parte proprio per un fenomeno percepito dagli intervistati da Goodman come positivissimo: la fine delle barriere di genere musicale, la possibilità di essere appassionati di hip hop come di rock.
In un mondo ideale, una meraviglia, sia chiaro; nel nostro mondo, la fine della musica come identificazione in un preciso gruppo sociale e un’altra strada verso l’omologazione attuale e la perdita di significanza della musica, ridotta a mero entertainment come pure, ohimè, le altre arti. Come avrà capito chi ha durato la fatica di leggermi fino a qui, il libro è ricchissimo di aneddoti e ricordi personali e costituisce, oltre che un regalo dal Cielo per gli appassionati della New York 2001-2011, un’interessantissima e doviziosa fonte di spunti sociologico-musicali per la comprensione di un passaggio epocale dal Novecento al Duemila. Soldi ben spesi. Complimenti a Odoya
Articolo del
22/06/2023 -
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