L’idea alla base del libro del critico musicale Stefano Mannucci è tracciare il profilo di alcuni periodi della popular music del Novecento concentrando l’attenzione su determinati artisti che sono riusciti a lasciare un segno nella storia e nell’immaginario comune, o che hanno tentato di introdurre cambiamenti nella società.
L’impressione iniziale suscitata dalla lettura di “Batti il tempo” è che l’autore abbia voluto creare in maniera artefatta una fitta rete di rimandi con cui costruire una narrazione riguardante per lo più l’America degli anni Sessanta e Settanta.
I capitoli si occupano di mostri sacri, e temi e iniziative importanti: Miles Davis; Beatles e Bob Dylan; Johnny Cash; le lotte contro il razzismo e per i diritti civili, Martin Luther King, il blues, il gospel, Aretha Franklin; il TAMI Show del 1964, e i Rolling Stones all’Ed Sullivan show; Charles Manson, Beach Boys e Fugs; Rory Gallagher; Joni Mitchell, Charles Mingus e Jackson Browne; i disordini sanguinosi alla Kent State University; Malcolm X, Black Power, Last Poets e Gil Scott-Heron; Frank Zappa e il controverso PMRC (Parents Music Resource Center) di metà anni Ottanta; e, tra gli altri, Robert Wyatt, Genesis, Tim e Jeff Buckley; Laura Nyro, Sandy Denny, Nick Drake.
Un potenziale guazzabuglio, che, invece, superata la sensazione di trovarsi di fronte a nessi e rimandi pretestuosi, stimola l’interesse di chi legge proprio per la singolare capacità manifestata da Mannucci di intrecciare storie e vicende, e di suggerire collegamenti, senza perdere di vista il filo conduttore del discorso.
“Batti il tempo” tratta, insomma, argomenti già ampiamente presi in esame in numerosi saggi, ma con un taglio decisamente originale.
Gli appassionati della musica e dei movimenti culturali prodotti e sorti negli Stati Uniti e nell’Inghilterra dei decenni sopracitati non potranno non apprezzare la ricerca compiuta dall’autore, e la maniera personale con cui è stata sviluppata.