Altra uscita della preziosa collana Director's Cut e altro titolo appetibile, dedicato stavolta a un gruppo oggi quasi leggendario, ma che all’epoca incontrò ostacoli consistenti nel farsi apprezzare al di fuori della cerchia di Louisville, nel Kentucky.
Come avviene spesso con le monografie della Tuttle Edizioni, l’introduzione vale da sola il prezzo del biglietto. L’autore, Federico Savini, riflette sul “successo” ottenuto dagli Slint a posteriori; sull’alone di mistero che li avvolge parzialmente e sulla loro cristallizzazione nell’immaginario comune (sorte che, in fondo, condividono con artisti quali Nick Drake e Syd Barrett).
Ineccepibili e illuminanti, ad esempio, le osservazioni sulla natura della musica incisa dal complesso (e utili, a tale riguardo, i paragoni con i Nirvana): una musica non “giovanile”, che non si presta a letture sociologiche, e che rivela quanto, nei decenni passati, sia stata erronea l’interpretazione formulata dagli adulti delle modalità con cui i giovani hanno rappresentato il loro universo interiore attraverso la combinazione di suoni.
Savini si concentra sull’attività febbrile dei ragazzi della nascente nuova scena musicale di Louisville a partire dalla fine degli anni Settanta (illustri predecessori: Bill Monroe e Loretta Lynn). Seguendo la spinta del desiderio di innovazione, il patrimonio tradizionale viene trasfigurato con l’innesto di sonorità vibranti e abrasive che aprono la strada a nuove possibilità espressive.
Influenzata da complessi come Hüsker Dü, Replacements, Meat Puppets e Minutemen una girandola di formazioni e progetti diversi dà vita a dischi estremamente eterogenei, talvolta caratterizzati dall’alternanza di passaggi vigorosi che pescano dall’hardcore punk e di momenti di distensione.
L’analisi puntuale condotta dall’autore ha per oggetto non solo i dischi registrati dagli Slint: viene dedicato spazio a gruppi correlati con la band quali Squirrel Bait, Maurice, Bastro, Bitch Magnet, Gastr del Sol, Rodan, e non di rado ne vengono messi in evidenza i tratti caratteristici (ad esempio, l’impostazione agli antipodi di Peter Searcy e David Grubbs degli Squirrel Bait e il fragile equilibrio che ne deriva, che costituisce il punto di forza del complesso).
Le descrizioni di Savini sono calzanti ed efficaci. Basterebbero le pagine in cui spiega i motivi dell’importanza assunta da “Spiderland” e dagli Slint nel corso del tempo, sottolineandone le “conquiste estetiche” (“austerità estrema, catatonia emozionale, inquietudine perenne”). Traguardi raggiunti di cui faranno tesoro artisti come i Gastr del Sol “per esplorare nuovi approdi espressivi e ampliare il campo delle possibilità di un linguaggio musicale che tuttora non è riducibile a un sottogenere codificato”.
Degna di nota, inoltre, la ricostruzione della miriade di “intrecci” e collaborazioni i cui protagonisti sono figure dell’underground statunitense del calibro di Steve Albini, David Yow dei Jesus Lizard, Will Oldham e Jim O'Rourke. Inoltre, non mancano riferimenti al giornalista Simon Reynolds e alla definizione di “post-rock” da lui coniata (che nel libro è contestualizzata) e a etichette come la Quarterstick, che ha definito i canoni del sound “post-slintiano”. Bella e significativa la chiusa con la citazione del primo singolo di Oldham “Ohio River Boat Song”.
Non sappiamo quanti se ne siano accorti, ma da anni abbiamo nel nostro paese l’equivalente della pregiata collana “33 1/3” pubblicata in lingua inglese dalla Continuum. Sono questi saggi della Tuttle Edizioni, uscite trimestrali che ogni volta hanno la capacità di riservare sorprese inaspettate (per i temi proposti) e gradite agli appassionati di musica
Articolo del
16/07/2025 -
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