Janie Hendrix è la sorellastra minore di Jimi, nata 19 anni dopo di lui, dirigente della Experience Hendrix, la società di famiglia che gestisce l’eredità del grande chitarrista; John McDermott lavora per lei ed è uno dei più grandi esperti della vita e dell’opera di Hendrix: i due sono gli autori di questo bel volume, “Jimi”, che unisce un sontuoso apparato iconografico (foto d’epoca, pubbliche e private, manifesti di concerti, volantini) a una densa biografia del chitarrista, che a occhio e croce occuperà un terzo del volume, scritta in piccolo e quindi nient’affatto frettolosa.
Un’uscita di pregio, tanto per la bellezza dell’opera quanto per la presenza di alcuni scatti poco visti (le foto di Jimi con una Janie di appena 7 anni, a Seattle, ad esempio) e di notizie sfiziose che, sarà un limite mio, non ho trovato in altre biografie di Hendrix (lo confesso: non le ho lette TUTTE).
Ad esempio, lo sapevate che Jimi era indeciso tra scegliere come batterista della Experience Aynsley Dunbar o Mitch Mitchell? E che la questione fu risolta da Chas Chandler gettando in aria una monetina? O che il primo discografico cui Chandler propose la JHE fu quel Dick Rowe che anni prima aveva già rifiutato i Beatles (“I gruppi chitarristici stanno per scomparire, mr. Epstein”)?
Indovinate quale fu la sua risposta: esatto (genio). Altre perle: dopo l’incendiaria (in tutti i sensi) esibizione del 1967 al Monterey Festival Pop, capace di oscurare i Who, Billboard sentenziò che quello di Hendrix era “sensazionalismo [...] non indicativo di un particolare talento” (quello che si chiama capirci molto di musica).
Il volume si fa leggere volentieri, ben scritto com’è, fitto di piccoli particolari che illuminano a nuovo scene ed eventi già ben conosciuti e in generale tenta di far emergere l’immagine di un Hendrix meno drogato di quanto abbiano sempre riportato le cronache. Dato per indubbio che spesso il chitarrista sia stato drogato a sua insaputa, tramite qualche aggiuntina nascosta di LSD alle bevande (cosa che alla fine degli anni Sessanta andava molto), tuttavia ritengo che l’intenzione di McDermott dia una ripulita un po’ troppo drastica a un musicista che, come molti altri della sua epoca, era ben addentro alla battaglia per spalancare le porte della percezione.
Certamente in questo modo McDermott ottiene il risultato di mettere nella giusta luce l’enorme stanchezza che alla fine del 1970 affliggeva Hendrix, cosa affermata ripetutamente da ogni biografia, ma messa in ombra dalle testimonianze sull’enorme consumo di stupefacenti da parte di Jimi. E invece, se le droghe hanno contribuito alla sua morte e al declino del suo fisico e della sua mente, l’impatto decisivo fu dato dalla stanchezza, che lo indusse a prendere involontariamente un dose eccessiva di sonniferi.
Elegantemente, McDermott sorvola sulle responsabilità di Monika Danneman, troppo drogata per accorgersi delle condizioni in cui versava Jimi, che la tormentò a lungo, portandola al suicidio nel 1995.
Tutto ciò non inficia minimamente il risultato: un volume di grande pregio, con qualche chicca capace di ingolosire gli appassionati di Hendrix, e anche un buon viatico a chi volesse cominciare ad approfondire la vita e l’opera di uno dei musicisti più importanti del secolo scorso. Consigliatissimo.
Articolo del
23/12/2023 -
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