Agile libretto dedicato a CRÊUZA DE MÄ, già edito nel 2011 col titolo “Controsole. Fabrizio De André e Creùza de ma”, torna in libreria in una nuova edizione arricchita: al posto della prefazione di Enzo Guaitamacchi c’è quella di Peter Gabriel, che racconta di essere venuto a conoscenza del disco di Fabrizio De André da David Byrne e di averlo apprezzato molto, nonché di averlo sfiorato in Sardegna dopo l’acquisto di una proprietà vicino a quella del genovese. Nega l’incontro, il birichino genesisiano, che invece ci fu - breve, imbarazzato e di poche parole - nel 1987 all’Arena di Verona, come ricordano i due autori. Inoltre c’è qualche intervista nuova nel capitolo XIII (“Commenti e interviste”), come quella a Oscar Prudente, che narra alcuni curiosi aneddoti su Faber (la sua fede nei segni zodiacali la conoscevate?).
CRÊUZA DE MÄ, uscito nell’anno domini 1984, fu disco importatissimo nella storia della musica italiana e con qualche eco all’estero (il David Byrne e il Peter Gabriel di cui sopra), perché cambiò sostanzialmente il modo in cui venne percepito e utilizzato il folk: non la filologia con cui l’americano Alan Lomax negli anni ’50 lo salvò dalla scomparsa (sì, venne anche in Italia); non l’ideologia del Cantacronache e dei Dischi del Sole, che partivano dal modello folk per costruire una Nuova Canzone Italiana di lotta sociale. De André, che per questo si rivolse a Mauro Pagani, che nel suo primo omonimo disco solista del 1978 si era già mosso su quelle coordinate, era piuttosto partito dalle esperienze degli anni ’70 (gli Area e il Canzoniere del Lazio, su tutti), che partivano dal folk per incrociarlo con il folk di altri Paesi, specie mediterranei, e altre musiche, rock e jazz su tutti.
Utilizzando una strumentazione raccattata qua e là nel Mediterraneo e utilizzando il genovese per i testi, De André e Pagani crearono un folk plurietnico e archetipico, rendendolo al tempo stesso appetibile commercialmente (CRÊUZA DE MÄ a fine anno fu solo 43° nella classifica degli album, ma entrò in Top Ten ed ebbe il picco al n. 7). In due parole, analogamente alle esperienze che andavano conducendo Peter Gabriel (la prima edizione del festival WOMAD è del 1980), David Byrne e Brian Eno (MY LIFE IN THE BUSH OF GHOSTS è del 1981) Pagani e De André stavano inventando la World Music. Che è rendere pop il folk nell’originaria accezione del termine pop, che indica quelle musiche, sorte nelle città industrializzate a partire dalla fine ’800, che mescolavano fra loro materiali di diversa provenienza, sia bassa (il folklore) sia alta (la lirica, la classica), sia spaziale (Mediterraneo, Caraibi, mondo anglosassone, ecc.).
Già questo folk poppizzato aveva sfondato nelle classifiche italiane con l’album omonimo di Teresa De Sio nel 1982 (4° nella classifica annuale), tra pop e tradizione napoletana (già pop perlomeno dal Seicento). Ora De André e Pagani raccontavano un Mediterraneo mitico, in una lingua con poca dignità canzonettistica (il genovese), molto ristretta territorialmente, in cui raccontavano storie che reinventavano per lievi distorsioni fatti e personaggi mediterranei. Si creò un genere con un notevole seguito, anche se spesso senza onore di classifiche, per almeno tre decenni.
Per questo motivo il libro di Amodio e Molteni è una gradita ripubblicazione: perché, attraverso miriadi di testimonianze, ripercorre modalità e vicende della nascita, sviluppo e creazione di un disco che ha fatto la storia della musica. Perlomeno italiana. Volume piccolo, ma prezioso.
Articolo del
06/01/2024 -
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