“Dove sei stata, cos’hai fatto mai? Una donna! Donna, dimmi: cosa vuol dir sono una donna ormai”? Chi non ha cantato questi versi sulla spiaggia, incoraggiati da un chitarrista che sapesse fare tre accordi? È la “Canzone del sole”, uno dei tanti successi di Lucio Battisti. Parole che restano in testa grazie a una melodia decisamente orecchiabile ed è proprio quella melodia che ci fa amare determinate canzoni senza farci chiedere il significato del testo.
Riccardo Burgazzi, milanese, 36 anni, filologo, ha analizzato mezzo secolo di canzoni italiane, dagli anni Cinquanta al Duemila, e ha scritto Il maschilismo orecchiabile, pubblicato da Prospero Editore. Mezzo secolo di sessismo nella musica leggera italiana in cui abbiamo cantato la donna angelo, quella tentatrice, quella “immobile” che sa dire solo sì; ci ha poi fatto conoscere i “maestri dell’amore” e il club degli uomini tremendi.
L’analisi di Burgazzi si limita alla canzone sanremese e ai tormentoni estivi ed evita di affrontare la trap non perché non abbondi anch’essa di testi crudi e maschilisti ma per diverse ragioni, a cominciare dal fatto che il fenomeno è troppo giovane per poter essere giudicato ora e, inoltre, perché manca del requisito dell’orecchiabilità.
Nella rete di Burgazzi ci sono finiti dentro un po’ tutti; si salvano solo pochi cantautori ma, come vedremo più avanti, non Roberto Vecchioni. Iniziamo da Battisti la cui produzione è tutta caratterizzata dal sessismo. In un testo scritto da Mogol si racconta di un uomo che ha invitato a cena una ragazza con uno scopo non tanto recondito: lui prepara la cena, carne di qualità, caviale, il vino nel frigo. Poi controlla l’orologio in un’attesa spasmodica, ad alto tasso di testosterone. Lei arriva, mangiano di gusto, e alla fine lei si alza e va in camera da letto: “La sento, mi chiama, la vedo in pigiama… Dio mio no! Cosa fai”? Si avvera ciò che l’uomo aveva sperato ma questo non gli impedisce di stigmatizzare la donna tentatrice. La canzone è “Dio mio no”, censurata nel 1971 dalla Rai tanto che nella famosa trasmissione radiofonica Hit parade era annunciata al primo posto ma non veniva diffusa. Così molti di noi andarono a comprare lo spartito per scoprire che Dio mio no! si basa su un solo accordo di Mi settima…
Tra i più bersagliati dal filologo autore dello studio sulla canzone maschilista c’è Marco Masini il cui percorso è un’escalation: nel 1990 sostiene che le ragazze serie non ci sono più “ti toccano il sedere dandoti del tu” e cinque anni dopo si rivolge a lei in “Bella stronza” dicendole: “Hai chiamato la volante quella notte/ e volevi farmi mettere in manette/ solo perché avevo perso la pazienza” … Insomma, lei aveva sbagliato quando a lui veniva di strapparle “quei vestiti da puttana/ e tenerti a gambe aperte/ finché viene domattina”.
Ammaliatrici, tentatrici, libertine, libidinose, ecco le donne di mezzo secolo di musica leggera. Eppure, negli anni del beat qualche voce si era levata contraria. Ad esempio, Caterina Caselli, capelli a casco d’oro e minigonna: “Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu/ la verità ti fa male lo so” e poi Patty Pravo, la ragazza del Piper: “No ragazzo, no/ tu non mi metterai/ tra le dieci bambole/ che non ti piacciono più”.
Anche le cantanti però hanno dato il loro contributo al maschilismo, forse perché le canzoni erano quasi sempre scritte da uomini. Prendiamo un pezzo famosissimo di Fiorella Mannoia, “Quello che le donne non dicono”. A un certo punto, sul finale, Fiorella canta: “… e se ci trasformiamo un po’ è per la voglia di piacere/ a chi c’è già o potrà arrivare a stare con noi… portaci delle rose, nuove cose/ e ti diremo ancora un altro sì”. Quella di Ruggeri è presentata come una canzone combattente ma finisce con quel dichiararsi disponibile a ogni sacrificio per soddisfare i capricci dell’uomo amato. Non è esente dal contributo di sessismo neppure la grande Mina che canta “Sono come tu mi vuoi” cioè un brano in cui lei sta mesta e taciturna: “Non sai quanto bene ti ho dato/ e non sai quanto amore sprecato/ aspettando in silenzio che tu/ di accorgessi di me”.
Qualche dubbio viene su alcuni brani satirici come quello di Rino Gaetano che prende di mira gli sceicchi al tempo della crisi petrolifera che costringeva gli italiani a circolare con le auto a targhe alterne: “E senza benzina e gasolina/ soltanto un litro e in cambio ti do Cristina/ Se vuoi la chiudo pure in monastero/ ma dammi un litro di oro nero”. Povera Cristina, però dobbiamo ricordare che si trattava di un pezzo satirico. È invece meno spiegabile la canzone di Roberto Vecchioni, cantautore, professore di latino e greco: “Voglio una donna, donna/ donna con la gonna/. che s’innamori di te la Capitana Nemo/ quella che va al Briefing/ perché lei è del ramo/ e viene via dal Meeting/ stronza come un uomo/ sola come un uomo”. Che dire? Il professore ha detto che non lo abbiamo capito e che intendeva rimarcare come una donna non debba scimmiottare i maschi.
C’’è poi differenza nel racconto quando lui abbandona lei e viceversa. Nel primo caso per lui arriva sempre il momento di andare via proprio come quando s’alza il vento (Battisti) o quando suona la sveglia per i Pooh: “Mi dispiace di svegliarti/…devo andare, il mio posto è là”. Se invece è lei che se ne va, l’abbandono è vissuto sempre come una crudeltà inspiegabile: “E io dovrei comprendere/ se tu da un po’ non mi vuoi”? chiedono i Pooh.
Di rifiuti, stalking e mille improperi sono intrise le canzoni di Adriano Pappalardo: “So dove passi le notti/ Ti seguo, ti curo/ non mollo, lo giuro/ perché sono nel giusto/ perché io ti amo”, canta in Ricominciamo. Come abbiamo detto il libro non si occupa di Rap e Trap. Ma l’appuntamento forse è solo rimandato perché l’autore della ricerca cita un verso di Fabri Fibra: “Io non voglio una ragazza che mi rappa in bikini/ La mia donna più che rap deve farmi i” … È un pezzo del 2006, si intitola Vaffanculo scemo. Certo non è orecchiabile e quindi sarà difficile ricordarlo a differenza delle melodie della cosiddetta musica leggera, ma la storia sembra continuare.
Articolo del
23/01/2024 -
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