“Totalitarismo” è un termine che comparve per la prima volta in Italia il 12 maggio 1923 sulle colonne del quotidiano “Il mondo”, nell’articolo “Maggioranza e minoranza” a firma del senatore liberaldemocratico Giovanni Amendola, fiero oppositore del governo Mussolini di cui, pur essendo questo ancora nella sua “fase legalitaria”(cioè un regime autoritario), coglieva i germi della sua futura trasformazione in dittatura: il Fascismo avrebbe dato vita a un “sistema totalitario” [...] “promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato nel campo della vita politica ed amministrativa”. Il 22 gennaio 1924, su La Rivoluzione Liberale, Don Luigi Sturzo, leader del Partito Popolare parlò di una “trasformazione totalitaria di ogni e qualsiasi forza morale, culturale, politica e religiosa” messa in atto dal regime. A partire dal 1925 sarebbero venute le “leggi fascistissime” a trasformare un regime illiberale in una dittatura totalitaria, la prima d’Europa e del mondo (URSS dal 1927; Germania dal 1933), in cui l’ideologia al potere entrava in ogni avvenimento della vita dei cittadini, pubblica e privata.
Ma le leggi, si sa, traducono in atto ciò che è in potenza (Aristotele scusami): in questo caso una mentalità certo non totale, ma che a poco a poco aveva conquistato strati sempre più larghi della popolazione. E non solo con le idee o con la violenza politica; ma - paradossalmente - con la conquista di quell’egemonia culturale di cui il filosofo comunista Gramsci aveva compreso l’importanza nella lotta per la conquista del potere (morirà a causa del Fascismo e della lunga detenzione nelle sue carceri: oltre al danno, pure la beffa dell’appropriazione culturale, neppure dichiarata, da parte della fazione opposta).
I venticinque lettori che avran durato la fatica di arrivar sin qui sappiano che uno dei modi con cui il Fascismo conquistò l’egemonia culturale furono le canzonette, alle quali, non a caso, avrebbe dedicato tanta attenzione una volta divenuto regime totalitario. Il tema, poco trattato ma cruciale (recuperate su Youtube la lezione su “Il canto fascista” del prof. Aldo Giannuli) trova elegante, piacevole ed ampia trattazione in questo saggio a due mani di Franco Zanetti, direttore di rockol.it, e Federico Pistone, giornalista del “Corriere della Sera”, costruito per schede (ben 130), una per canzone. “Canzoni alla radio 1924-1944” recita il sottotitolo, che completa il titolo che insieme sbeffeggia il grido di battaglia dei fascisti (“Eia Eia Alalà”, coniato da D’Annunzio già durante a Grande Guerra) e la sigla dell’antenata della RAI, l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche, dal 1927 versione fascista della vecchia URI (Unione Radiofonica Italiana), già istituita dallo stesso regime.
Che radio era? Una radio fatta sostanzialmente di varietà e musica, poca quella “seria”, tanta quella “leggera”, i cui testi dovevano necessariamente essere graditi al regime. Parlavo prima però di egemonia culturale: e infatti, a dispetto del sottotitolo “1924-1944”, giustamente le schede iniziano dal 1919, anno in cui si diffuse il mito della “vittoria mutilata”, fu fondato il Fascismo, avvenne l’Impresa di Fiume. ’Inno a Roma, ‘Le Rose Rosse’, ‘Vipera’, ‘Scettico Blues’ del 1919, ’Abat-jour’ e ’Tic-tì tic-tà (gira e rigira)’ del 1920, ’Gastone’, ‘Il Canto delle Donne Fasciste’, ‘Addio Tabarin’ del 1921, tutte precedenti la Marcia su Roma, pongono già le coordinate del montante regime, su cui si muoveranno le canzonette dei vent’anni successivi: culto della patria; propaganda ideologica tanto fascista quanto nazionalista; stanchezza per le lotte e desiderio di una pace salda (che paradossalmente darà vita a un regime che aveva il culto della guerra: la storia fa strani scherzi); un atteggiamento tra il nostalgico, l’ammirato e il dileggiante per la vita notturna dei Vip; donne stereotipate, peccatrici o virtuose. Seguiranno, negli anni, canzoni che accennavano alle tribolazioni degli emigranti italiani all’estero come ’Porta un Bacione a Firenze’ (tribolazioni vere, ma la cui narrazione era ben vista dal regime, che aveva stoppato l’emigrazione, lasciando che la gente morisse di fame a casa sua, in campagna, dove non disturbava), o di esplicito sostegno alle avventure del regime (’Ti saluto! Vado in Abissinia!’, ‘Carovane del Tigrai’, ‘L’ha detto Mussolini’ e via inneggiando), ma anche di sospetta fronda come ’Crapa Pelada’ (sarà mai stato Mussolini?), ’Pippo non lo sa’ (ma avranno alluso a Starace?), ’Maramao perché sei morto?’ (censurato perché il suo titolo apparve sulla tomba di Costanzo Ciano a Livorno).
Dal lato musicale le canzoni del Ventennio si pongono sulla falsariga dello sviluppo della tradizione melodica autoctona, operistica (’Inno a Roma’ fu composto da Puccini) o napoletana (ma con tante varianti geografiche: milanese, genovese, fiorentina...) o mostrano un timido, ma costante e crescente, avanzare delle influenze swing, non esplicitamente vietate dal regime (pare che a Mussolini piacesse), ma mal visto perché espressione di razza inferiore. Anche qui il regime colpì: il grande cantante (e batterista) jazz Natalino Otto e il grande direttore d’orchestra Gorni Kramer furono esclusi dalla radio per la loro “barbara antimusica negra”. Si diedero alle tournées, in Italia e all’estero, e furono riammessi a furor di popolo.
Volume consigliatissimo, completato da interventi di Riccardo Bertoncelli, Vincenzo Mollica e Francesco Guccini, importante tanto dal punto di vista storico che musicale, utile anche a riscoprire un repertorio spesso di grande valore in assoluto (alcuni brani sono diventato standard del jazz, non solo italiano). Per questo, gli autori hanno progettato uno spettacolo con Le sorelle Marinetti, che porterà in giro per l’Italia le canzoni del Ventennio. Applausi.
Articolo del
18/02/2024 -
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