“Dietro la porta chiusa” di George Harrison cosa c’era? Cerca di spiegarcelo in questa eccellente biografia del Beatle timido Graeme Thomson, critico inglese per The Guardian, Mojo, Uncut e Rolling Stone (tra gli altri), autore di altri volumi dedicati alle vite di grandi musicisti, come Kate Bush.
Questa su Harrison, uscita originariamente nel 2013 e solo ora pubblicata in Italia, è eccellente per diversi motivi: la quantità delle testimonianze; la serietà della ricerca; l’imparzialità dell’autore, che non costruisce la vita di un santo, ma illumina luci e ombre dell’autore di "Something"; l’equilibrio tra opera artistica e vita pubblica e privata che non scade mai nel gossip fine a se stesso, ma procede mettendole in stretta connessione, il tutto al servizio di quel ritratto a tutto tondo di cui ho scritto.
Qual è, allora, la verità, vi prego, su George Harrison? Che era un uomo normale, con le sue virtù, i suoi difetti e qualcosa di speciale, finito per caso in una situazione eccezionale. Un’infanzia felice, da ultimogenito cocco dei genitori, che rimasero felicemente insieme tutta la vita: “Fin dal giorno della sua nascita aveva ricevuto amore attenzioni dalle persone a lui vicine, senza doversi sforzare virgola e non sentiva affatto il tipico bisogno di adulazione approvazione comune a tanti artisti”, scrive Thomson, che giustamente nota: “Nei Beatles avrebbe desiderato avere più spazio creativo, ma non cercò mai di conquistarsi i riflettori. Anche da solista, è sempre stato più a suo agio come parte di un collettivo che come frontman”.
La famiglia non era ricca e forse per questo anche Harrison fu sempre attento ai soldi, tanto come John, Paul e Ringo. La solidità affettiva e familiare ingenerò ben presto il senso etico che lo avrebbe contraddistinto tutta la vita: si faceva i fatti suoi, finché qualcuno non faceva il bullo con qualcun altro; allora il piccolo George interveniva. La famiglia abitava alla fine dell’abitato di Speke, vicino a Liverpool, a fianco di campi aperti, binari della ferrovia, boschi, paludi e fattorie, e fin dall’infanzia Harrison prese ad amare solitudine e tranquillità: teneva separati i gruppi di amici e faceva lunghe passeggiate solitarie. Allo stesso tempo, sebbene preferisse stare zitto se non aveva nulla da dire, non si faceva problemi a dire quello che pensava, sfoggiando una schiettezza che sarebbe sconfinata spesso nella maleducazione e nell’offesa e lo avrebbe caratterizzato per tutta la vita.
Come avrebbe raccontato John Lennon nella famosa intervista del 1971 a “Rolling Stone”, durante una pausa delle registrazioni del WHITE ALBUM, Harrison gli disse, alla presenza di Yoko Ono: “Sarò sincero. Ho sentito certe cose: Dylan e altra gente hanno detto che ha una brutta nomea a New York, che dà cattive vibrazioni”. Nota argutamente Thomson: “Forse non deve stupire il fatto che quando Harrison tornò su While My Guitar Gently Weeps la band non sembrasse metterci il giusto impegno”. Peraltro a suo tempo Harrison aveva avuto il cattivo gusto di dire a Lennon, che da poco stava insieme a Cynthia Powell: “Credo che Cyn sia fantastica. Ha un solo difetto: ha dei denti da cavallo”.
Diversamente da John e Paul, “Harrison non voleva diventare una popstar, un cantante o un cantautore. Voleva solo suonare la chitarra”. Esposto a tutti i generi di musica come i futuri colleghi, fu folgorato anch’egli dal rock’n’roll: Elvis, Buddy Holly e Little Richard, sopra tutti. Ma non sfoggiò un talento smisurato e disordinato: la sua eccellenza e originalità furono il risultato di ore e ore dedicate ogni giorno allo studio dello strumento, con una metodicità rara nei rocker di quella generazione.
E a pensarci bene, qualcosa dello stile pulito di Scotty Moore o del chitarrista country Chet Atkins rimase nel suo. Anche per questo il suo talento compositivo sbocciò più tardi di quello degli altri: mentre John e Paul sfornavano pezzi uno dietro l’altro, affascinati proprio dalla composizione, il suo primo pezzo registrato dai Beatles, Don’t Bother Me, arrivò solo nel secondo album, e per trovarne un altro (anzi due) si sarebbero dovuto aspettare due anni e tre LP. C’entravano diverse cose: l’età (Harrison aveva 4 anni meno di Ringo, 3 meno di John, 1 meno di Paul), che lo rese a lungo inviso a John, che non vedeva bene quel ragazzino quasi imposto da Paul; l’abitudine a stare in disparte; la scarsa diplomazia (che colpì particolarmente John). Era come se, abituato da piccolo a ricevere tutte le attenzioni del mondo in famiglia, non si capacitasse che nel mondo le cose non vanno così, che gli spazi bisogna conquistarseli; anche con la gentilezza.
La fama fu da un lato come ritrovare quelle attenzioni, con tutti che gli dicevano di sì e ogni porta che si apriva, durante e dopo i Beatles; ma dall’altro fu una maledizione a cui in realtà si riferiva già la sua prima canzone: Don’t Bother Me, “non disturbarmi”. Nacque qui il contrasto tra il material world, per cui sentì sempre fortissimi attenzione e appetito e il desiderio di un senso superiore, trascendente, partito con l’assunzione forzata di LSD in quella serata a cena con Lennon e moglie dal loro malandrino dentista e proseguito con l’incontro con la spiritualità indiana, contrasto che avrebbe segnato tutto il resto della sua vita. Dapprima ebbe tutto l’entusiasmo del neofita e riempì le sue canzoni di prediche che gradualmente assunsero un tono sprezzante verso chi sbagliava; poi si rese conto che il suo modo di fare allontanava la gente dalle verità che voleva trasmettere, come ebbe modo di confessare nel 1973 a Prabhupada, il fondatore degli Hare Krishna: “Credo di far arrabbiare la gente... di provocare una reazione negativa”.
Finì per apparire il solito miliardario eccentrico: “Le sue battaglie all’interno di quel mondo materiale apparivano come lussi, se paragonati ai compromessi che doveva fare il resto della popolazione”. Cominciò un progressivo ritiro dalle scene: dopo il semi disastroso tour del 1974 sarebbe tornato in tour solo nel 1991, solo in Giappone, con Eric Clapton.
Dopo la morte di John Lennon, divenne sempre più appartato. E purtroppo, a ragione, visto che fu vittima di un’aggressione in casa sua in cui quasi lasciò le penne. Uomo di molti contrasti, gentile e sgarbatissimo, vizioso e spirituale, ora autore di gemme stupefacenti ora di trascurabilità assolute, desideroso di portare la verità spirituale al mondo tramite canzoni sempre egoriferite, si sarebbe spento serenamente, per tumore, circondato dall’affetto della famiglia. Non un brutto modo di morire.
Biografia eccellente, funestata da qualche errore di traduzione dovuto forse a una non perfetta conoscenza del classic rock da parte della traduttrice (ad esempio, Chris O’Dell ora è maschio, erroneamente, ora è femmina, correttamente), ma assolutamente consigliatissima. Da avere.
Articolo del
14/06/2024 -
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