Scorrendo a ritroso la sua carriera, non è sbagliato dire che tra il ’69 e il ’71 Bob Dylan attraversò uno dei suoi periodi artistici meno ispirati, dando alle stampe tre tra i suoi dischi probabilmente meno brillanti di sempre, Nashville Skyline, Self Portrait e New Morning. Già con la pubblicazione di Nashville Skyline, nel 1969, quella patina country&western rassicurante che caratterizzava quasi tutti i brani, la voce, stranamente e insolitamente per lui, impostata, persino l’immagine convenzionale e amichevole che lo ritraeva in copertina intento a levarsi il cappello in segno di saluto, lasciavano intravede un Dylan, forse per la prima volta, “lineare”, tra le righe, e incapace dei suoi soliti guizzi, magari scomodi, sempre spiazzanti. Nonostante tutto questo, quel disco vendette tantissimo a dimostrazione che il genio di Duluth, in quel momento aveva conquistato una rilevanza, artistica e di mercato, notevolissima, tanto da consentirgli di pubblicare come vedremo, qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Ma qualcuno, tra i critici e i fans, cominciava a chiedersi dove fosse finito il Dylan degli esordi, il portavoce di una generazione, e se l’incidente motociclistico del ’66 non lo avesse cambiato per sempre.
L’uscita di Self Portrait nell’anno successivo non contribuiva a ristabilire le cose, e anzi, complice un titolo che lasciava presupporre, ma a torto, chissà quale quadro profondamente introspettivo che sarebbe dovuto emergere dai solchi del nuovo lavoro, l’accoglienza fu fredda, visto che di profondo, introspettivo e personale, in questo disco sembrava non esserci poi tanto. E la delusione dei fan e dei critici questa volta fu praticamente unanime, fino a far esclamare al celebre Greil Marcus, l’altrettanto celebre espressione “Cos’è questa merda?” in una famosa recensione di Self Portrait, pubblicata su Rolling Stone. Chi infatti si aspettava il Dylan più autentico (ma esiste “un solo” Dylan autentico?!) rimase deluso da un album doppio che riportava composizioni fin troppo “leggere”, nella scrittura e nell’esecuzione (ancora in buona parte permeata di quel vocalismo così impostato che poco si confaceva al cantastorie erede di Woody Guthrie), oltre che nella produzione, troppo pulita, troppo radiofonica per i puristi del folk, e persino nella scelta dei brani (oltre a pochi inediti furono inseriti alcuni brani live dal concerto con The Band all’Isola di Wight del 31 agosto 1969, alcuni traditional, e alcune cover di brani dell’epoca, una su tutti la The Boxer di Paul Simon), sulla cui scelta l’artista dichiarò: “Mi sento obbligato a rispettare il mio contratto discografico, e questo significa anche registrare le migliori canzoni che posso...Ed è per questo che mi guardo in giro, e cerco anche canzoni di altri”), che diedero alla fine una complessiva scarsa omogeneità al lavoro, che si perdeva tra la nuova vena interpretativa di Bob Dylan, come crooner e il tentativo di buttarci dentro cose di altri che lui amava o aveva apprezzato.
Va detto, ad onor del vero, che le prime registrazioni dei brani che poi costituirono Self Portrait, Dylan le fece accompagnando la sua voce, oltre che dalla sua chitarra, solo da quella di David Bromberg e dal piano di Al Kooper, e che soltanto in un secondo momento, per una scelta personale di produzione, effettivamente piuttosto discutibile, i nastri vennero mandati a Nashville dove l’arrangiatore Eddy Arnold fece sovraincidere le parti di archi e quelle della nuova sezione ritmica, cambiando non poco l’impronta dei pezzi, e dando al tutto una dimensione quasi orchestrale, molto lontana dallo spirito folk del Dylan che tutti conoscevano.
A distanza di molti anni da quel disco, negli anni Ottanta, più volte Dylan è tornato a parlarne, rilasciando dichiarazioni che in qualche modo cercavano di giustificare il perché e il percome quel disco fosse stato fatto, e fosse stato fatto in quel modo, con quelle scelte: da un lato dichiarò che era “costituito da quei brani che avevamo eseguito per tutto il periodo che avevamo trascorso a Nashville. Avevo fatto quel materiale per ottenere un sound di studio (…) e inoltre avevamo parecchio materiale che era meglio pubblicassimo noi, piuttosto che lasciarlo uscire sui bootleg. E così mi ero semplicemente immaginato di mettere insieme tutto quel materiale per realizzare il mio bootleg”. Ma se questa dichiarazione potrebbe lasciare intendere che di fondo ci fosse un’esigenza artistica e professionale ben precisa, in altre circostanze l’artista di Duluth non esitò a dire che “...non ero per niente soddisfatto dell’attenzione che mi veniva rivolta (..) stavo ricevendo il genere di attenzioni sbagliato (…) quindi avevamo pubblicato quell’album per prendere le distanze dal pubblico. Questa è la ragione per la quale è stato pubblicato l’album: perché in quel periodo il pubblico smettesse semplicemente di comprare i miei dischi cosa che ha fatto”. Insomma, in questo caso in perfetto stile Dylan, cercò col senno di poi, di giustificare un album fiacco, controverso e di scarso successo, provando a convincersi che era stato fatto col preciso intento di deludere tutti. Difficile pensare che davvero sia stato così, non fosse quantomeno per lo stuolo di ottimi musicisti coinvolti nelle registrazioni (alcuni tra i fedelissimi di Dylan di quegli anni, come i già citati Kooper e Bromberg), e anche perché sarebbe ancora più difficile comprendere il perché dopo pochi mesi dovette sentire sentì l’esigenza di dare alle stampe un nuovo lavoro, New Morning, più diretto rispetto all’autoritratto di Self Portrait, ancora non perfettamente a fuoco, ancora non così dylaniano, ma comunque con un altro impatto (anche a livello di vendite) e un altro spessore, rispetto al suo predecessore.
Detto tutto ciò, il Volume 10 dell’ormai leggendaria Bootleg Series che Dylan regala a cadenza quasi irregolare ai suoi fans, va a scavare proprio nei meandri e nei sottoscala di quel controverso periodo, proponendo Another Self Portrait, quindi un nuovo autoritratto ( e così come la copertina di Self Portrait riportava un autoritratto eseguito da Dylan in persona, lui stesso ha commissionato questa volta un nuovo ritratto che campeggia sulla cover). Il cofanetto riprende versioni alternative dei tre dischi sopra menzionati, anche se l’attenzione maggiore va proprio alle alternate takes di Self Portrait, per lo più riportate in versione scarna, senza sovraincisioni e con solo voce, un tocco di piano, e un paio di chitarre di accompagnamento: va detto che alcune di queste takes sembrano meglio di quelle finite nel disco del ’70, o comunque danno la sensazione che in nell’esecuzione scarna, trovino un’intensità e un equilibrio migliore: a partire dall’arrangiamento dei tradizional Little Sadie o Belle Isle, o ancora Wigmaw o la scarna e livida Days Of ’49. Anche se a sorprendere di più sono i vari inediti che furono registrati ma non finirono in quel disco: Pretty Saro (ancora connotata però da una vocalità quasi fastidiosamente impostata che rende la voce nasale di Bob quasi irriconoscibile) e la bella cover di Railroad Bill, o ancora la blueseggiante House Carpenter, dove pochi accenni di piano, chitarra e armonica sostengono una desolata ma molto evocativa narrazione. Molto belle, e assolutamente meritevoli di finire sul disco originario, le “cover” che Dylan realizzò di brani come Annie’s Going To Sing Her Song di Tom Paxton o Thirsty Boots di Eric Andersen fino alla dolcissima e ispiratissima interpretazione di Spanish Is The Loving Tongue, eseguita solo voce e piano, quasi commovente nel suo andamento malinconico e nostalgico (in effetti un’altra cover, l’autore è Charles Badger Clark).
Come sempre le Bootleg Series, oltre a sollevare il coperchio su piccoli gioiellini inediti di Bob Dylan, mostrano anche come la smania di stravolgere, rivedere, ri-arrangiare che ha sempre avuto e mostrato dal vivo (soprattutto negli ultimo 15-20 anni), sia stata e fosse una prerogativa anche in studio. Così, l’ascolto delle alternate takes dei brani poi finiti su New Morning sorprende spesso per come l’arrangiamento e lo sguardo d’insieme del pezzo si distacchino da quelli che furono poi pubblicati: sentire a questo proposito Times Passes Slowly, If Dogs Run Free e soprattutto If Not For You, trattate in modo diversissimo rispetto agli “originali”. E nel caso di If Dogs Run Free, l’arrangiamento jazzato scelto poi per il disco del ’70, sembra decisamente meno efficace rispetto a quello che possiamo sentir oggi in Another Self Portrait. Non mancano anche per New Morning alcune “unreleased tracks” come la divertente Working On A Guru (con George Harrison special guest), o il gospel di Bring A Little Water.
A completare il Volume 10 di queste Bootleg Series (almeno nella versione standard in 2cd) ci sono alcune takes alternative dei brani di Nashville Skyline (una I Threw It All Away, molto simile a quella poi finita sul vinile del tempo, e con un classico esempio di Dylan in versione crooner, e un frammento di Country Pie che mostra Dylan alle prese con le prove in studio), alcuni altri inediti sparsi tra Basement Tapes e una bella Only A Hobo, sfuggita, non si sa perché, al Greatest Hits II, stranamente vista la sua leggera e contagiosa bellezza), e un paio di brani tratti dal live con The Band del ‘69. L’intero set all’Isola di Wight, invece si trova (insieme alla versione rimasterizzata di Self Portrait) in un cd a parte nelle versioni deluxe, a completare il quadro del Dylan di quegli anni.
A distanza di tempo, anche il giudizio di valore su Self Portrait necessariamente è differente: senza il senso di delusione e le aspettative dell’epoca, di chi si aspettava da un artista che tanto aveva influenzato la cultura giovanile degli anni ’60, un disco definitivo, quasi autobiografico (e qui chiaramente il titolo scelto non poteva che trarre in inganno, ma con Dylan si sa, niente è scontato...) e invece si ritrovò ad ascoltare un disco di passaggio, quasi un divertissement ad uso personale, chi come noi conosce l’opera immortale del maestro di Duluth, ma ha conosciuto nei quarant’anni e più successivi, tutte le sfaccettature, le conversioni, le nuove versioni di sé stesso da lui date (con gli inevitabili alti e bassi, anche discografici), appare un disco con alcune debolezze ma con una sua inevitabile ragione, e che, magari arricchito da alcune cose notevoli presenti su Another Self Portrait, alla resa dei conti non avrebbe potuto (e, conoscendo Dylan, tantomeno dovuto) essere troppo diverso da com’è.
Articolo del
21/10/2013 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|