Oltre alla passione letteraria per il realismo magico, ne ho un’altra per la letteratura russa.
Ed in verità più per la poesia che per la prosa, chè per quella bisogna essere in giornata sì, altrimenti si rischia davvero di vedere tutto dalla prospettiva dei cavalli. Ad ogni modo, c’è, nel verso dei poeti russi, o quantomeno della gran parte di loro, una potenza inaudita. Il verso russo è tagliato con l’accetta, secco come il vento della steppa.
Il mio primo incontro con la poesia russa arrivò al liceo, quinto anno, e non certo per meriti della mia insegnante di italiano. Il quinto anno è quello in cui si studia il futurismo, cosa che, nel perenne stivalocentrismo delle nostre programmazioni, vale a dire quella simpatica tendenza secondo la quale noi, la più grande provincia del mondo, siamo gli unici letterati ed il resto del mondo è pieno di zulù, si concretizza fondamentalmente con Filippo Tommaso Marinetti e qualche ipotetico e sparuto Palazzeschi. Poi più niente, non ci sono stati altri futurismi.
Se avrete un attimo imparato a conoscermi, comprenderete abbastanza presto quanto la mia resistenza a cose come rattattattattà friiii boom zang zott krkrkr sia stata decisamente breve e, soprattutto, insofferente. Insomma, dopo pochi minuti mi trovavo già ad improvvisare un giro del mondo letterario col mio libro come mezzo di trasporto.
Ora credo sappiate che tutti i libri di letteratura, ed in questo il mitico Luperini- Cataldi non fa eccezione, sono suddivisi per correnti letterarie e consecutio temporum storica. Per cui, ovviamente, dal futurismo italiano si passa a quello russo.
Praticamente mi ritrovai in una frazione di secondo da onomatopee evocative nelle intenzioni ma ridicole nella resa, alla potenza fatta verso, al fuoco trasformato in poesia.
Anna Achmatova, il geniale zaum di Chlebnikov e Krucenych, Burljuk e poi lui, Vladimir Vladimirovic Majakovskij.
Majak l’ho ritrovato, con mia sorpresa, in quel poutpourrì di poeti, che altro non era che l’Hylaea.
Parlo di ritrovamento perché il primo incontro era stato quando, ascoltando il mio Faber, mi ero imbattuto in quel “E dopo “maiale”, “Majakovsij”, “malfatto”, continuarono gli altri fino a leggermi “matto” “. Allora, ed avevo l’attenuante di una età giovanissima, avevo pensato che quel nome così strano appartenesse ad un qualche scienziato. Adesso, ritrovandomelo davanti sul libro di letteratura, compresi che poteva essermi molto più affine di quanto avessi creduto.
Comprai le Poesie nella traduzione di Guido Carpi. E fui investito da un flusso di versi tanto ardenti quanto incredibili, a tratti commoventi per la vitalità che riuscivano a sprigionare. Un gigantesco blocco di dinamite in forma di versi, espressione di ben altro blocco, quel realismo sovietico a tratti decadente che solo un altro poeta incredibile come Evtusenko riuscirà a scalfire con quel capolavoro che è “La centrale idroelettrica di Bratsk”.
Nel verso di Majak c’è tutto quello che ci dovrebbe essere in una poesia, dal punto di vista tecnico e da quello narrativo: c’è la potenza che sgorga da un bisogno comunicativo incandescente, c’è il ritmo del verso, c’è la musicalità (che in russo non è scontata, se vi capita di ascoltare “Ochota na volkov” di Vladimir Vysockij capirete meglio quanto sto dicendo). C’è lo zaum di cui sopra, il famoso “transmentale”. C’è anche il rispetto sacro per la parola, l’attenzione maniacale a che nessuna parola vada sprecata, la scelta cesellata di ogni espressione.
Ecco perché, ed entriamo nella stretta narrazione musicale, quando ho letto che Arlo Bigazzi, uno che in carriera ha prodotto i Diaframma e collaborato con Roger Eno, Enrico Fink, Eraldo Bernocchi, oltre che con Alessandro Benvenuti, e chi più ne ha più ne metta, stava lavorando, insieme a Chiara Cappelli ed alle sue traduzioni, su Majak, mi ci sono buttato a pesce: l’occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
Questo su Majakovski è un lavoro che ha preso vita ormai quattro anni fa, e che era inizialmente nato solo come un reading con musiche e testi dello stesso Bigazzi per la voce (e le traduzioni) di Chiara Cappelli. Adesso è diventato un enorme progetto transmediale che comprende anche due graphic novel, il doppio cd (uno con le sole versioni strumentali dei brani, l’altro con frammenti della vita di Majak misti a sue poesie) cui di fra poche righe racconterò, a cui hanno collaborato, fra gli altri, Blaine Raininger dei Tuxedomoon, Mirio Cosottini e Guido Guglielminetti, ed un cd prossimo venturo insieme a Flavio Ferri. Insomma, c’è un sacco di carne al fuoco, per cui direi di partire!
Disclaimer prima di cominciare definitivamente: le versioni strumentali dei brani le trovate su Spotify, e, dal momento che uno dei miei compiti è anche quello di invogliare chi legge a comprare materialmente gli album di cui parlo, vi racconterò solo del cd con all’interno anche le parti recitate, giusto per sottolineare che gli assaggi da Spotify sono interessanti sì, ma la musica si compra perché è un lavoro, e non comprandola si possono perdere dei pezzi. In questo caso, letteralmente. Diciamo che vi darò dei buoni motivi per prendere questo gran disco, sarò il panificio da cui esce l’odore dei biscotti appena sfornati. Poi tocca a voi entrare per mangiarli.
Si parte con l’aria dilatata e quasi trionfale del Prologo, scandito da una batteria che è quasi una marcia e dalle svisate di chitarra elettrica, larghe ed ariose grazie all’e bow, che fanno da cornice al racconto del funerale di Majakovskij, recitato con una imponenza vibrante, che restituisce l’impatto emotivo del momento raccontato.
A seguire c’è “Sarò nuvola in calzoni”, poesia del nostro, che Chiara recita restituendone la forza tagliente ed al vetriolo. Un tappeto di elettronica cadenzato da una linea di basso ipnotica e da una chitarra in levare è colorato dalle svisate impazzite di tromba, sax e chitarra elettrica, schegge impazzite di libertà che si tacciono al cominciare della commovente coda strumentale della sezione fiati che chiude il pezzo, sublimando ulteriormente la bellezza del verso, potente ma anche fragile, del Poeta di Ferro.
Terza traccia è “L’Infanzia”: un pattern ossessivo di percussioni e batteria, sopra il quale si staglia, incessante, la linea di basso, mentre il tappeto di elettronica fa da lancio ai contrappunti di tromba. Il racconto di Vladimir Vladimirovic, in flashback, riparte da Baghdati, dalla sua infanzia, e Chiara è una voce lontana nel tempo, al contempo sognante e nostalgica, in volo costante ed in costante tensione.
“Sciumiki”, recitata in russo, è un pezzo imponente, con una splendida chitarra e- bow doppiata dalla linea di basso, l’elettronica che fa da collante ed una batteria trionfale. C’è anche un theremin ed io, come sempre in questi casi, sono andato in brodo di giuggiole.
Un crescendo vorticoso e dirompente accompagna “I bambini nascono tutti uguali”, racconto dei primi incontri di Vladimir con la rivolta e la ribellione. Notevole la chitarra elettrica, che parte sottotraccia e si va facendo strada all’interno del pezzo, esplodendo in un riff scatenato nel finale.
Una chitarra incessante ed un pattern di batteria infuocato scandiscono la ritmica de “I giovani”, lirica di Majak, completata da un iniziale e- bow a colorarla, che lascia il passo ad una linea di basso ipnotica. Poesia fra le più sferzanti del grande poeta, Chiara Cappelli la recita mettendoci dentro tutto il disprezzo verso quelle “liriche da barboncini” piene solo di fuffa, che si avvicinano tanto al sapere istituzionale, quello scolastico e decisamente quadrato di cui parlavo all’inizio.
“Dal carcere” è un pezzo immobile, fermo, con un’atmosfera stagnante, colorato solo dalle svisate dei sax. Un basso a sei corde pesantissimo ingrigisce lo zeitgeist del pezzo, delle rare incursioni di theremin ne distendono il tempo, lo dilatano in un presente continuato e ripetitivo. L’apertura a metà brano suona come una epifania nell’immobilismo, il cuore che ricomincia a battere restituito da basso ed elettronica. Il recitato, dapprima quasi monocorde, esclusivamente a toni narrativi, si trasforma nel corso del pezzo, diventando quasi un sibilo, quello della rivolta e della ribellione.
“Nostre armi sono le canzoni, nostro oro le voci squillanti” è uno dei versi di “La nostra marcia”, ottava traccia del disco, magistralmente recitata da Chiara Cappelli, che ne restituisce, nei cambi di timbri e di toni, il dinamismo eversivo. Un tappeto di elettronica fa da cornice a dei contrappunti di sax e di theremin, che contribuiscono a portare il pezzo in un clima di incessante e profondo mutamento.
“Leggeva libri” è un altro crescendo fatto a regola d’arte, con una linea di basso marcatissima a cominciare il tutto, contrappuntata da una tromba pungente come il freddo russo, mentre la chitarra col wah a fare la ritmica rinfresca il pezzo, rendendolo meno pesante. Piccola curiosità “ciclica”: il diminuitivo di Vladimir in russo è Volodja, ed i più attenti non avranno difficoltà a ricordare un altro Volodja che sta molto a cuore ai russi, quel già citato Vysockji che, essendo un grandissimo attore, prima che un immenso cantastorie, interpretò il nostro Majak in una pièce che aveva per titolo proprio “Ascoltate Majakovskij”. I famosi corsi e ricorsi storici…
Decima traccia dell’album è “La notte”. Anche qui un recitato praticamente perfetto, nel quale le parole si rincorrono e si scivolano addosso, riesce a trasmettere perfettamente l’atmosfera della lirica, sublimata da una tromba magistrale, altissima ed avvolgente, sorretta a sua volta dalla classica base di elettronica, che si apre sul finale, per dare spazio ad un nuovo giorno.
“Continuò a scrivere” contiene il verso che diventa la spiegazione più immediata per comprendere l’attualità di Majakovskij, oltre che il sottotitolo dello stesso album, “il nuovo viene dal vecchio ma ha il respiro di un ragazzo”. Uno splendido tappeto di elettronica ed un larghissimo arpeggio di tastiera fanno da cornice ad un pezzo dal respiro molto ampio, sublimato dai gorgheggianti fraseggi di violino. Siamo di fronte al brano che, probabilmente, più d’ogni altro fa da manifesto non solo della poetica di Volodja, ma direttamente di Volodja stesso, e riesce a centrare un punto cruciale per il concetto stesso di arte: “l’arte doveva sporcarsi le mani nel mondo, nelle strade, nelle piazze, con la vita. Non solo perché è lì che prende, ma perché è lì che è diretta e lì deve essere utile.”
“Ne risponderete!” è una cavalcata tumultuosa, tuonante nel suo raccontare la guerra. C’è una chitarra elettrica che si inventa un riff folle, il solito tappeto di elettronica che apre illusoriamente a metà brano, poi un violino impazzito completa il delirio sonoro che è questo pezzo, placato solo nel finale da un piccolo lampo di normalità, coincidente, in antitesi, con l’inizio “vero” della guerra. Nella tempesta vorticosa della guerra, il recitato di Chiara Cappelli è l’unico aggancio stabile: cadenzato, quasi non sfiorato dal circostante, sdegnato ma di quell’incazzatura sacra che mantiene una sua razionalità.
“La blusa gialla” mantiene un inizio talmente rarefatto e talmente ossessivo che sembra di essere in uno piano sequenza degno del miglior Tarkowskij, di quelli belli lunghi. Poi entrano gli altri strumenti ed il pezzo assume dei toni quasi noir: un ritmo comunque incessante, batteria ed elettronica a scandirlo, i contrappunti di sax e tromba a dare ulteriori nuancès.
“Ma voi” è il prosieguo ideale del pezzo precedente: stessa atmosfera, un solo di tromba e sax fotonico in mezzo, un recitato corrotto e suadente, a tratti sborone, che sembra lanciare la sfida di “suonare un notturno su un flauto di gronde”.
Sempre la tromba padroneggia in “Amò molto”, pezzo sorretto dai contrappunti della stessa, che colorano il pattern di batteria e la base di elettronica.
“Per una signorina” ci propone un recitato commovente, pieno di tensione emotiva e di fragilità, sostenuto da una musica che lo segue passo passo: un pattern di percussioni sostiene la ritmica, la tastiera fa da base melodica, il basso fretless scandisce ed allarga il pezzo, mentre una tromba straziante lo colora definitivamente. “Entrò nella rivoluzione come se entrasse in casa propria. E come si fa in casa propria, iniziò a spalancare finestre. Sempre con la voglia di distruggere e ricominciare da capo. Con l’entusiasmo e la speranza di cambiare il mondo, convinto che l’arte dovesse intervenire con rabbia e violenza.” A mio gusto, il pezzo più bello dell’intero album.
Tutt’altra atmosfera per “Ascoltate”: una chitarra indiavolata mette subito le cose in chiaro, e non smetterà di farlo per tutto il brano. La batteria è un treno, la tromba urla incandescente, il theremin è il benedetto elemento dissonante, mentre la linea di basso si pianta in testa nonostante il dedalo di incursioni degli altri strumenti.
L’Epilogo è un ritratto meraviglioso di Vladimir Vladimirovic, lo umanizza definitivamente, pur non scalfendone il mito. Ed il finale, con una interpretazione de “La nuvola in calzoni” da pelle d’oca, sorretta da un’apertura di archi ed elettronica, è la conclusione più commovente di un progetto incredibile nell’idea e nella resa finale.
In chiusura non mi dilungherò più di tanto, credo di aver fatto abbastanza. Un ultimo dato “tecnico” però lo volevo analizzare: l’intreccio delle due voci- quella degli strumenti tutti e quella di Chiara- ha funzionato a meraviglia, tutti gli elementi vibrano perfettamente all’unisono.
Anche questo è bisogno di comunicare qualcosa, e non ci poteva essere modo migliore di omaggiare un poeta che ha messo al centro proprio la sua grande necessità di comunicare.
Ehi, voi!
Cielo,
Toglietevi il cappello!
Me ne vado!
Articolo del
22/12/2020 -
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