Città del Messico 1971. Nel quartiere medio borghese Roma la domestica indio Cloe si occupa di Sofia, di suo marito Antonio e dei loro quattro figli. Vincitore del Leone d’Oro alla 75sima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Roma di Alfonso Cuarón intreccia la storia di questa affettuosa e delicata ragazza capace di mettersi in silenziosa e autentica comunicazione con chi ama, insieme a quella di Sofia, la madre dei quattro figli che lei accudisce e che a un certo punto viene lasciata, per un’altra donna, da suo marito Antonio. La sceneggiatura è liberamente ispirata all’autobiografia di Cuarón e contiene la dedica a Libo, la sua tata.
In parallelo seguiamo le due donne appartenenti a due diverse classi sociali, Cloe e Sofia, che man a mano troveranno una solidarietà che permetterà loro di superare la differenza di classe; in secondo piano i loro uomini irrisolti e infantili, Firmin e Antonio. L’entrata in scena di quest’ultimo personaggio maschile è già una dichiarazione politica: la rivoluzione non è solo un sostantivo femminile. Sin dalle prime inquadrature il capofamiglia appare più come una sineddoche di sè stesso: l’ingresso nel cortile della sua casa insiste sui dettagli dell’auto, simulacro di virilità e potere, sulla mano che butta la cenere della sigaretta, sul primo piano del parafango mentre lentamente e ossessivamente parcheggia al millimetro nel poco spazio a disposizione. Spazio domestico verso cui mostrerà tutta la sua insofferenza per ciò che rappresenta, la vita familiare. Firmin, amico della cugina di Cloe Adela, al primo incontro con Cloe si scopre in tutta la sua inconsistenza: la scena in cui tutto nudo volteggia con la stecca della doccia in mano in una goffa imitazione di Bruce Lee è a dir poco risibile. Appena saprà che Cloe è incinta, si dileguerà nel nulla lasciando di sé come unica traccia la sua giacca di pelle, anche quella una parte per il tutto.
Colpiscono alcuni elementi singolarmente presenti anche in altro cinema di Cuarón (Gravity, per esempio).
Il rapporto di continuo slittamento tra interno ed esterno, tra le mura private della casa, il cortile, le relazioni familiari e una Città del Messico caotica, brulicante di vita e di contraddizioni, in pieno tumulto politico per le rivendicazioni degli studenti negli scontri con i paramilitari. Cuarón condensa immagini, in un bianco e nero nitido e adamantino, pregne di poesia che hanno un sapore di un certo cinema orientale. Mette in scena l’esistenza umana cogliendone anche quei tratti intangibili della presa di coscienza dei personaggi. Dà corpo e voce a tutto ciò che è implicitamente presente nelle inquadrature, e lo fa con un’autenticità priva di velleità psicologiche. Roma riesce a fare un ritratto schietto di un gruppo di famiglia tra coralità e intimismo, solitudini e convivialità che si mescolano e coesistono in perfetto equilibrio (e che ricordano anche il suo Y tu mamá también). I dolori e le solitudini delle due donne protagoniste affiorano pian piano e si trasformano senza mai scivolare in immagini seduttive o falsamente evocative.
E poi l’acqua. Acqua che bagna, lava, purifica. Un elemento presente fin dalla prima inquadratura. Quella con cui Cloe lava i pavimenti e in cui si riflette l’immagine del cielo nel mondo di fuori; quella delle acque della sua placenta che si rompono e scendono a rivoli sulle sue gambe il giorno del massacro studentesco dei paramilitari del Corpus Christi. Giorno in cui rivedrà per caso, nei panni di un estremista di destra Firmin, il padre della figlia che porta in grembo, e che non essendo mai stata voluta/amata mai vedrà la luce.
Quella dell’Oceano di Veracruz in cui la famiglia di Sofia si reca in vacanza per permettere ad Antonio di svuotare la casa dalle sue cose. Quando i bambini più piccoli si allontanano in mare rischiando di annegare, Cloe, nonostante non sappia nuotare, sfida le onde pur di salvarli. Questo episodio chiude come un cerchio il viaggio della famiglia che, passata la tempesta, si ricompone intorno a lei. La ragazza rinata a nuova vita, espliciterà per la prima volta che la sua bambina era nata morta perché lei stessa non la voleva. L'essersi inoltrata fino ai confini dell’esistenza la traghetterà verso l’elaborazione di un lutto che la riporterà consapevole sulla terrazza a stendere il bucato, nella scena finale. Finalmente a casa
Articolo del
09/12/2018 -
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