L’articolo 490 del codice penale marocchino punisce con la reclusione fino a un anno tutti coloro che hanno rapporti sessuali prima del matrimonio. Nell’era di internet, dei social e delle chat di incontri, questo articolo risuona quanto meno disallineato ai tempi, se non paradossale. Opera prima e premio per la miglior sceneggiatura a Cannes nella sezione Un certain regard, dell’esordiente Meryem Benm’Barek, regista marocchina vissuta in Belgio, Sofia è ancor di più la storia di un diniego collettivo e non solo di una gravidanza al di fuori del matrimonio, in un paese dalla legislazione eccessivamente severa.
Figlia unica ventenne di una famiglia benestante di Casablanca, Sofia scopre di essere incinta il giorno in cui le si rompono le acque, durante una cena di affari familiari tra i genitori, la zia e Hamed, un ricco amico di famiglia. Il suo è un diniego di gravidanza, così lo definisce Lena, la cugina medico che l’aiuterà accompagnandola in segreto al pronto soccorso, ovvero una negazione difensiva che a volte la mente mette in atto quando si rifiuta di accettare alcuni aspetti della realtà. E’ una reazione difensiva di cui comprenderemo più avanti le ragioni, più complesse di quanto si pensi.
Prima che l’ospedale informi le autorità Sofia e Lena si mettono alla ricerca del padre della bambina appena nata per evitare la denuncia e lo scandalo. Così, dopo un parto in cui Sofia non riesce nemmeno ad aprire le gambe, in cui nessuno sguardo di tenerezza viene regalato alla piccola appena nata, ci si aspetterebbe un precipitare degli eventi e non un’infernale discesa in un apparente happy end. Più ci si inoltrerà nella storia e più lo sviluppo narrativo mostrerà la trasformazione di Sofia da vittima a carnefice, pronta ad agire il proprio destino con una determinazione assolutamente inaspettata. Nei momenti di maggiore intensità emotiva, i personaggi vengono ripresi con la camera a mano, pedinati come a volerne svelare le contraddizioni e gli intimi segreti (Farhadi docet, ndr) senza però riuscire a mostrare fino in fondo l’evoluzione interiore della protagonista.
Sofia racconterà a tutti che è Omar il padre della sua bambina, un ragazzo che vive in un quartiere povero e che ha conosciuto in un call center. Questi all’inizio negherà tutto ma poi accetterà di sposare la ragazza, subendo la pressione della propria madre che vede in questo matrimonio una possibilità di riscatto sociale per tutta la famiglia. D’altro canto anche la famiglia di Sofia, dopo lo shock iniziale, liquida velocemente la questione per salvare l’onore e gli affari economici che stava per concludere e si prepara a un sontuoso matrimonio “riparatore”. Persino la madre di Lena confessa alla figlia che lei stessa non si è sposata per amore.
Tutti (tranne la cugina Lena e l’agnello sacrificale Omar, irriducibili idealisti in un mondo di squali) rimarranno soddisfatti per aver seppellito un’altra verità, molto più scomoda e inquietante, il cui sacrificio è ritenuto necessario in un mondo dove esiste solo la norma dell’apparenza, in un macabro rituale dell’identico falso e privo di ogni umano sentimento.
Quello che sembrava un film di denuncia sulla condizione femminile in Marocco si trasforma in una riflessione su convenzioni e convenienze: Sofia stessa, che poi scopriremo essere una vittima abusata, non si mostra più disponibile ad essere una bambina, cioè qualcuno di cui si può disporre senza chiedere il suo parere, qualcuno che si può lasciare in disparte, e come un adulto scivolerà senza esitazione verso il sacrificio di idealismi, sogni e speranze tipici di un’adolescente pur di non turbare quelle che sono le convenienze sociali. Non molto lontano dunque, nonostante l’emancipazione dell’occidente, da tante storie che accadono anche qui vicino a noi
Articolo del
24/03/2019 -
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