Perché Almodovar può essere considerato tra i più grandi cineasti viventi della storia del cinema? Perché è in grado di unire in una sublime sintesi cuore e testa, corpo e anima, dolore e piacere, leggerezza e dramma esistenziale. Il suo cinema è come la vita, bella e terribile, e questa sua ultima opera Dolor y Gloria è forse la più intensa e compiuta tra i suoi film.
Raccontarne la trama non rende la potenza e l’incanto di questo film di cui possiamo accennare solo alcuni elementi. La vista è il senso privilegiato, strada maestra per la conoscenza del mondo esteriore. La bellezza delle immagini, grazie alla fotografia di José Luis Alcaine, insiste tutta sul contrasto tra i colori primari e sul dominio delle diverse tonalità del rosso, il colore del sangue, della passione, della morte. L’udito poi: la centralità della musica nei passaggi temporali (Come Sinfonia di Mina, per dirne una) permette ai sensi di catapultarsi, insieme al personaggio principale, nella parte più remota dei ricordi, in un tempo e uno spazio che rappresentano tutti i tempi e tutto lo spazio del film, quelli in cui si sono generate le prime ferite e i primi desideri e in cui passiamo una vita intera a sostare come eterni bruchi dentro al bozzolo.
I più piani narrativi, nei quali oltre al passaggio tra presente, passato remoto e passato prossimo si assiste anche all’inversione dei ruoli e allo slittamento tra spettatore e personaggio. I contenuti simbolici del racconto onnipresenti nella filmografia almovodariana (da La legge del desiderio a Todo sobre mi madre, a La malaeducaciòn) il desiderio, l’amore struggente per la madre, la nostalgia per l’amante perduto, il rapporto tra vita e finzione sono solo alcuni dei temi che il sessantanovenne Almodovar mette in scena attraverso il protagonista, suo alter ego.
Antonio Banderas è un regista sessantenne (guarda un po’!) gay, malinconico, sofferente, che riesce a trovare sollievo dalla dipendenza distruttiva, dal dolore della vita nell’unica risorsa interiore di cui dispone, la capacità creativa del suo mestiere. Viene in mente una frase del film Eva contro Eva di Mankiewicz in cui Bette Davies dice – Ora che non devo più recitare posso solo vivere la mia vita-. Ed è proprio questo che Banderas- alias- Salvador Mallo non riesce a fare, chiuso in una ferita originaria, quella inquadrata nella scena iniziale mentre è sospeso nel liquido amniotico della piscina, e che lo porta ad un’esistenza per sottrazione, ad un eterno ritorno al punto di partenza, tra sogno e dipendenza dall’eroina.
Non evolve questo bambino ferito, vive intrappolato nel ricordo struggente di una madre la cui soddisfazione, che diventa anche la propria, è irraggiungibile. Come fare ogni volta per ricominciare? Come salvarsi? Come svolgere finalmente il nastro dei sogni e riavviarlo in avanti?
Tutto il senso del film, in un continuo rispecchiamento tra regista, attore, vecchi amori e rimpianti ci dice che “L’amore non salva”. Possiamo solo sperare di salvarci da soli; una spietata stilettata al cuore, irreversibile, necessaria. E abbandonati il melodramma in cui almeno c’era la liberazione nella violenza della morte o l’ironia nei cambiamenti di genere, Almodovar ora fissa il suo sguardo sul cinema, che da sempre è stato il suo rifugio. E’ la rappresentazione artistica della vita a curare dal male di vivere attraverso quell’energia vitale che ognuno ha dentro di sé e che la Klein definiva con un’immagine efficace “un uomo e una donna che fanno l’amore”; una potenza generatrice. Ecco, l’opera d’arte portatrice di una verità molto più vera della vita stessa. Anche se nella scena finale, nel ribaltamento di piani, la vita, il sogno e l’immaginazione non sembrano più distinguibili
Articolo del
23/05/2019 -
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