Il Film
L'antefatto su cui fonda le sue radici Mank, il nuovo attesissimo film di David Fincher, è da collegarsi al noto saggio di Pauline Kael, critica del New Yorker, scritto nel 1971 e intitolato Raising Kane – The Citizen Kane Book, nel quale l'autrice sosteneva che la paternità della scrittura di Quarto Potere fosse in gran parte da attribuire a Herman J. Mankiewicz e non al suo regista Orson Welles. Da qui sembra partire l'idea di Jack Fincher, padre di David, di scrivere la sceneggiatura per un film volto a mostrare questo rapporto conflittuale tra Mankiewicz e Welles, sullo sfondo di una Hollywood d'Antan.
Mank è il primo film diretto da David Fincher dopo Gone Girl del 2014. Muovendosi tra le trame della sceneggiatura di suo padre Jack, reinterpreta e racconta l'epopea di un atipico “Don Chisciotte” in cerca di riscatto. Mank è altresì il centro nevralgico di un universo, quello della Hollywood della Golden Age, fatto di contraddizioni, di luci e ombre, di poteri e false promesse, di bagliori scintillanti velati da un'oscurità latente. Gary Oldman riesce sapientemente a far rivivere la genesi del suo personaggio, sempre in balia di genio e autodistruzione, protagonista di un conflitto che nella sua esegesi più profonda travalica il personale, smantellando la dimensione sociale e la morale. Mank è il riflesso della sua immagine e manipolazione della stessa.
Mentre la fotografia di Eric Messerschmidt, con quel bianco e nero dai colori iper saturi, oscuri e crepuscolari, conserva l'anima di una vecchia pellicola e la lacerazione graffiante del passato, la storia, come in Quarto Potere, si dipana attraverso una struttura narrativa non lineare costruita su flashback temporali.
In questo contesto il film risulta essere un prodotto moderno e attuale che, volgendo lo sguardo all'essenza di un'epoca che non c'è più, tra le righe racconta anche un po' del presente. Un film stratificato dunque, che non è solo effige di un momento, di uno stato d'animo. È un'epifania nella quale realtà e illusione, mito e verità, sembrano fondersi fino a scomparire del tutto. Mank è infine e soprattutto un film di dialoghi e di parola. È infatti il verbo a dare slancio dinamico all'intera narrazione. Da esso nasce tutto e a partire da esso tutto si trasforma.
La colonna sonora
Una menzione speciale va data alla soundtrack del film firmata da Trent Reznor e Atticus Ross. Il sodalizio artistico tra i due e Fincher ha già all'attivo le colonne sonore di The Social Network, che gli valse l'Oscar, Millennium – Uomini che odiano le donne e L’amore bugiardo – Gone Girl. Nel caso di Mank, Reznor e Ross si sono ispirati alle grandi composizioni orchestrali di Bernard Herrmann, di Henry Mancini e alle band jazz e swing degli anni Trenta e Quaranta, restituendo 52 tracce per 1 ora e 33 minuti di musica che sa di vaudeville e di profonde e oscure orchestrazioni interiori.
Nei suoni risorge la Hollywood di un tempo andato, anche attraverso l'uso di strumentazioni e microfoni d’epoca e il contributo del direttore d’orchestra Conrad Pope e degli arrangiatori Dan Higgins e Tim Gil, e rivive la psicologia stessa del personaggio, in continua lotta contro sé stesso, le sue dipendenze e la società circostante.
C'è inoltre una visione contemporanea nelle sonorità create da Trent Reznor e Atticus Ross, che a causa della pandemia sono stati costretti a registrare e ad assemblare gran parte del materiale in videoconferenza, come la ricostruzione digitale dei suoni che graffiano come in un vecchio giradischi oppure lo scorrere immateriale delle parole attraverso il rumore dei tasti di una macchina da scrivere.
Una soundtrack dunque che mescola la solennità del passato alla spessore della presente. C'è la sperimentazione minimalista e asciutta che abbraccia un'epoca sonora dall'animo jazzy e swing, tra reiterazioni sonore, delicati rumorismi e tensioni ritmiche, a tratti rarefatte, lontane e ronzanti. Una colonna sonora che è visione postmoderna sul cinema.
Articolo del
14/12/2020 -
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