(foto di Nicola Cariati)
Quanto tempo serve per percorrere il tappeto rosso alla Mostra del cinema di Venezia? Pochi minuti per i fotografi e un’eternità per Cristiano De André che, seguendo il percorso verso la Sala Darsena, mette ordine ai ricordi della sua vita.
Il film “De André#De André” arriva al cinema dopo il tour sull’opera rock Storia di un impiegato; è il culmine di una carriera che, nonostante il cognome inesorabile e un diploma in violino al Paganini di Genova, s’è iniziata con le feste di piazze, una gavetta che ti fa crescere, altro che gli odierni talent. Cristiano ripensa a quei giorni, accade nel momento del trionfo con un film che dal 25 al 27 ottobre sarà proiettato in 320 sale cinematografiche. Ha inciso dischi importanti come Scaramante o Come in cielo così in guerra, un suo pezzo è stato ripreso e cofirmato da David Byrne, ma ora affiorano i ricordi di quelle feste in piazza, delle sue prime canzoni importanti eseguite sullo stesso palco dove Mietta raccoglieva gli applausi per il “trottolino amoroso”.
Dunque, De André hashtag De André, un simbolo dei nostri tempi che aggrega tematiche e persone. La sceneggiatura si può leggere come una serie di metafore in grado di traghettarci dalle istanze sociali degli anni Settanta a una rivoluzione personale; accade miracolosamente quando la sfera privata si unisce a quella sociale e la poesia si sposa alla politica. Cristiano presenta il docufilm a Venezia assieme a Dori Ghezzi e a Roberta Lena che aveva curato la regia del tour nei teatri e all’Arena di Verona, tramutando il concerto in uno spettacolo “multimediale” perché dietro la grande band di Cristiano scorrevano le immagini delle manifestazioni degli anni di piombo. Allora si scendeva in piazza per rivendicare un nuovo diritto di famiglia, per l’aborto, l’abolizione dei manicomi, per il sogno di un mondo senza disuguaglianze e intanto si alzava il fuoco del terrorismo e l’Italia conosceva lo strazio delle stragi di Stato. Sembrava che tutto dovesse cambiare ma forse il frutto più vistoso è stata la secolarizzazione dei costumi. Tutto questo è documentato nel film di Roberta Lena, la regista torinese autrice del bel libro “Dove sei? la storia autobiografica di una madre la cui figlia decide, da un giorno all’altro, di partire per la Siria e andare a combattere l’Isis. Ma non è tutto.
Con grande sensibilità artistica, Roberta Lena innesta sulle canzoni di Storia di un impiegato le vicende umane di Cristiano, il suo rapporto con un padre-mito, il desiderio di un’infanzia risolto con un bicchiere tra le mani. A parte le immagini delle canzoni, un potente mix di elettronica e strumentistica acustica tratte dalle registrazioni fatte nel Teatro degli Arcimboldi di Milano, la scena del film diventa Portobello di Gallura, un luogo importante per Fabrizio ma di cui, a torto, si parla poco. È la casa che nel 1968 Faber cominciò a costruire con la moglie Enrichetta detta Puny. L’abitazione era arroccata più in alto di tutte le altre e Faber la battezzò il Nido dell’aquila. La dimora precedette, dunque, la scelta dell’Agnata e in quel Nido si ritrovarono molti miti del cinema italiano: Tognazzi, Marco Ferreri, Elio Petri, Walter Chiari e Paolo Villaggio. Tanti cervelli insieme che si nutrivano di uno spirito anarchico. È lì che una notte d’estate Ferreri ebbe l’idea della Grande abbuffata: “Tognazzi era un grande cuoco”, racconta Cristiano, “e dopo aver preparato una cena sontuosa portò in tavola una bellissima torta. Peccato che la forma fosse quella di due tette perfette” …
La fotografia rende merito a un bagnasciuga del Nord Sardegna dalla cui acque limpide Fabrizio scorse un giorno una vacca che torceva il collo con un dentice in bocca. Nella casa abitata oggi da Cristiano è rimasto una sorta di soppalco, un piccolo proscenio su cui Ferreri, Tognazzi e tutta la combriccola si impose un limite di un quarto d’ora a testa per provare qualche gag. E così Villaggio, tra un belin e l’altro, inventò la scena delle polpette ingurgitate di fronte al severo dietologo tedesco: “Tu mangia! Infermieri venite”! Ugo Tognazzi fece le prove della Supercazzola, termine ormai riconosciuto anche dalla Treccani. Fu a Portobello che per la prima volta venne Francesco De Gregori per tradurre una canzone del futuro premio Nobel Bob Dylan con Cristiano, bambino, che gli chiese: “Perché Alice guarda i gatti”? Storia di un impiegato fu scritta in parte in quell’angolo di paradiso e in parte a Genova in Corso Italia dove Fabrizio viveva con Puny e con Cristiano. In un’altra notte che volgeva all’alba, Faber svegliò Puny: “Vieni di là, ho scritto una canzone, voglio fartela sentire”.
Era “Verranno a chiederti del nostro amore”. Cristiano - allora aveva dieci anni - sbircia i genitori dallo spioncino della porta del salotto: il padre canta e arpeggia sulla chitarra, la mamma ha due lacrime che scivolano sulle guance; nella dinamica del disco è l’estremo addio alla persona amata. Fabrizio scrisse quei versi mentre stava attraversando una grave crisi personale, innamorato di una ragazza di nome Roberta a cui avrebbe poi dedicato Giugno ’73 che si conclude con la fatidica frase: “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”. Storia di un impiegato, pubblicato nel 1973, venne criticato da destra e da sinistra; era un lavoro profondamente anarchico e voleva dimostrare che non ci sono poteri buoni. “Sarebbe stato capito anno dopo anno”, assicura Dori Ghezzi. Si racconta di un impiegato di trent’anni che avverte l’urgenza di potere per staccarsi da una vita anonima e si trasforma in un bombarolo ma così facendo fa solo il gioco del potere. Anzi la bomba è eterodiretta e gradita dal giudice che lo ringrazia per aver eliminato i “soci vitalizi del potere” che non servono più a vantaggio di altri fedelissimi.
Gli arrangiamenti di Cristiano De André e Stefano Melone sono stati calibrati proprio sulle tappe psicologiche del protagonista della storia. “Abbiamo cercato un suono che fosse un prolungamento di quello scelto all’epoca da Nicola Piovani”, spiega Cristiano, “l’idea era di riportare la tensione di allora a quella di adesso anche grazie a nuove sonorità. Abbiamo giocato col rock, con la musica popolare, con l’elettronica unendo tutti i brani con delle suite strumentali. Mio padre ha scritto senza seguire mai le mode e così le sue opere sono e saranno sempre attuali”. Ed è su questo che Roberta Lena ha puntato: “In Storia di un impiegato ci sono parole che, attraverso la poesia, ci riportano a un conflitto sociale, al bisogno della società di rigenerarsi con istanze dal basso. Quel disco è un sunto di quanto siamo costretti a vedere oggi ma una rivoluzione sociale non può esistere senza una rivoluzione personale. Su questo ho costruito la narrazione”. Dori Ghezzi ricorda una frase scritta in un appunto da Fabrizio: “A un tratto l’amore scoppiò dappertutto”, adoperato quasi come slogan dalla Fondazione.
“Quelle parole sono il suo testamento”, dice Dori Ghezzi, “sin quando la gente non imparerà a dialogare, a capirsi, a riconoscersi, i problemi saranno sempre gli stessi. Questo film è a tratti anche duro ma mi auguro che dia a tutti un po’ di speranza”. Il pubblico applaude, Cristiano si stringe ai figli Alice e Filippo. Poi saluta gli spettatori con un set di canzoni: Fiume Sand Creek, Don Raffaè, Creuza de ma, Disamistade, La canzone del maggio, in duo con il chitarrista Osvaldo Di Dio. Due chitarre che riescono a farti sentire anche gli strumenti che non ci sono. Un piccolo concerto per far risuonare le parole di Fabrizio, dalla parte delle minoranze oppresse, dei servi disobbedienti alle leggi del brano, di chi cammina in direzione ostinata e contraria per consegnare alla morte una goccia di splendore. Negli ultimi anni Fabrizio si era un po’ incupito. “Mi disse: ho scritto contro la guerra e per chi non ha voce”, ricorda Cristiano”, ma non è servito, non è cambiato niente. Sono deluso.
Ecco, oggi se solo potessi gli direi che ha sbagliato: noi siamo qui a parlare di lui e tanti ragazzini si avvicinano alle sue opere”.
Articolo del
16/09/2021 -
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