La domanda è essenziale: si può fare un film su una sola canzone? La risposta è sì, se la canzone è Hallelujah di Leonard Cohen, il romanziere e poeta diventato cantautore, l’ebreo diventato monaco zen, l’uomo che ha vissuto tante vite insieme.
Il film è stato presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia e Extra Music Magazine prosegue con Hallelujah: Leonard Cohen, A Journey, A Song le recensioni dei docufilm sulle star della musica, in arrivo nelle sale cinematografiche di tutta Italia. Dunque, un film su una canzone e Dayna Goldfine, una dei due registi, risponde alla nostra domanda iniziale: “Non avremmo mai osato fare un film su nessun’altra canzone ma in questo brano Cohen mette insieme la filosofia e la dimensione spirituale. Ci abbiamo lavorato per sei anni, non credo che avrei trascorso tanto tempo su un’altra canzone anche perché nessun altro artista avrebbe potuto scrivere un brano del genere”.
Hallelujah faceva parte di un album, Various Positions, che quando uscì nel 1985, suscitò molti dubbi, critiche e polemiche tanto che la casa discografica, la Columbia, (oggi Sony), decise di non pubblicarlo negli Stati Uniti. Il produttore disse: “Leonard, sei grande ma non capiamo quello che stai dicendo, questo disco non avrà mai successo”. Poi, come è capitato tante volte nella storia della musica pop, l’album e in particolare la canzone Hallelujah diventata un inno di fama internazionale, avrebbero avuto una risonanza che la casa editrice non aveva immaginato. Il film statunitense, attraverso quel brano e la sua storia controversa, ricostruisce, con interviste e materiali inediti, il ritratto di un poeta, un ebreo errante che va dal Canada a un’isola della Grecia, Hydra, negli anni del libero amore, dell’espansione delle droghe, anni Sessanta quando tutto sembrava possibile.
In quell’isola greca Leonard vivrà la lunga storia d’amore con la sua musa norvegese, Marianne Ihlen, e furono tradimenti, litigi e fughe senza che smettessero di amarsi per mezzo secolo. (La storia è anche narrata in un altro film, Marianne e Leonard, words of love, recensito da Extra Music Magazine nel 2020). Negli anni Cohen passerà poi dal Chelsea Hotel di New York dove soggiornava con Janis Joplin e Jimi Hendrix a un monastero zen, a due ora di auto da Los Angeles, adagiato su un cocuzzolo a 1500 metri sul mare. Starà in quel ritiro per sei anni, dal 1993 al 1999, giornate scandite da una ferrea disciplina a meditare e a cucinare per il suo maestro.
Sono stati anni durante i quali ritrovò la pace dello spirito e imparò a bere di tutto, cognac, whisky, vino mentre il suo maestro Seasaki Roshi preferiva il sakè. In quel monastero arrivò spinto dalla depressione ma non cercava risposte né una religione: “Sono nato ebreo, non ho mai nuotato in altri oceani. Morirò ebreo”. Hallelujah è formata da sette versi di cui tre definiti supplementari dall’autore; è un brano che Leonard pensa e ripensa nell’arco di molti anni e ci sono molteplici versioni dal vivo. Il testo originale contiene molti riferimenti biblici ma il brano accanto ai temi più spirituali mette quelli eterni dell’amore che se ne va. Il primo artista che la canta dal vivo in un tour del 1985 è Bob Dylan, poi Hallelujah entrerà nel repertorio di decine e decine di interpreti. Dal film apprendiamo che i due poeti si incontrano a Parigi e che Leonard con la sua consueta dolcezza, messa da parte l’usuale tetraggine, sorride a Dylan e lo ringrazia per la cover.
Il futuro premio Nobel si dice incantato da quelle sette strofe e chiede a Cohen in quanto tempo avesse scritto una canzone così. Il dialogo è fulminante: “Sette anni”, risponde il cantastorie canadese e Dylan riflette: “Pensa che per comporre I and I, (dall’album Infidels, Ndr), ci ho messo dieci minuti e l’ho scritta dentro a un taxi”. Un viaggio, una canzone e Cohen ha dato a tutti il permesso di tradurre i versi in mille modi diversi. Un amico del grande canadese disse che Leonard aveva portato l’alleluia sulla terra e Cohen gli rispose: “Allora questa canzone dev’essere reinventata, farla vivere non lasciarla in sospeso”. La canzone è una scoperta progressiva ma anche una fatica per i due registi americani. Quando proposero il progetto Leonard non era del tutto convinto di accettare ma poi pose solo alcune condizioni – rivela Robert Kory, responsabile di Leonard Cohen Family Trust – una di queste era di non rilasciare interviste, una decisione peraltro presa prima del tour del 2008.
I registi del film furono comunque contenti dell’approvazione del docufilm e lavorarono sul materiale messo loro a disposizione dallo stesso Cohen: quaderni e interviste alle persone più vicine, le guide spirituali, gli amici, i collaboratori di vecchi data, gli avversari intellettuali. Gli intervistati testimoniano l’interesse di Cohen per la condizione umana e in questo modo ci rivelano alcuni aspetti delle questioni più profonde, la fede, la vita, l’amore. Per quanto possibile ci spiegano anche molto del processo creativo, della ricerca filosofica e l’etica dell’arte dell’autore di Suzanne. Nei versi di Hallelujah contano più le domande rispetto alle risposte che spesso non ci sono o come cantava il suo amico Dylan, “the answer, my friend, is blowin' in the wind”, soffiano nel vento.
È un re confuso che compone l’Alleluia: “Dici che ho nominato il nome invano; non lo so neppure il nome”. I riferimenti sacri si fondono con l’amore carnale: “La tua fede era forte ma avevi bisogno di una prova, la vedesti che faceva il bagno sul tetto, la sua bellezza e il chiaro di luna ti stroncarono… non importa quale abbia udito tu, se il sacro o lo sgangherato alleluia!” L’assistente al montaggio è italiano: Tommaso Semenzato: “Avevamo tanto materiale”, spiega, “centinaia di ore di interviste, pezzi di concerti, scritti; il mio ruolo è stato quello di dare un senso all’archivio”. Tutto con uno scopo preciso: far emergere l’autenticità del poeta e il rispetto che aveva per il pubblico; l’uomo che racconta i perdenti della vita, l’amore smarrito ma che non è mai il cantore dei cuorinfranti. Con quella voce così bassa che scava nell’inconscio, Leonard ci racconta il male di vivere e la capacità di illuminare le nostre coscienze.
Così rivediamo quel signore con l’abito scuro e il cappello in testa che ci saluta dal palco alla fine del concerto: «Grazie amici, vi abbiamo dato tutto ciò che avevamo”.
Articolo del
02/10/2021 -
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