Presentato fuori concorso all’ultima edizione della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia si è guadagnato il Premio Pasinetti, storico riconoscimento “collaterale” del festival di Venezia assegnato dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani sin dal 1958 e che seleziona le opere da premiare all’interno di tutte le sezioni della mostra cinematografica. Che Paolo Virzì sia un maestro del cinema italiano, capace di esportare i suoi film anche all’estero, senza il clamore di premi roboanti ma con risultati sempre notevoli al botteghino, è un dato di fatto ormai incontrovertibile. Tuttavia, ogni suo nuovo film riserva sorprese e conferme.
Le sorprese di ”Siccità” sono sicuramente lo spunto e lo sviluppo narrativo. A inizio film si viene immediatamente immersi nel plot distopico: Roma soffre una grave siccità, l’acqua potabile è razionata, il Tevere si è prosciugato, domina ovunque una luce giallastra e la città si muove in un caos (se possibile) ancor peggiore di quello reale, con i suoi abitanti immersi in un sudore che è fisico ma anche metafora della sempre meno sostenibile pesantezza dell’essere e del vivere quotidiano. Sciami di bacaròzzi (blatte) invadono i bagni delle case, le strade, i luoghi storici della capitale come Trinità dé Monti, le celle del carcere di Rebibbia, quasi ignorate dai cittadini ormai rassegnati, sino a quando non si scoprirà che sono loro i vettori di una nuova epidemia…
Questo il filo conduttore del film, ma sullo schermo la storia non segue uno sviluppo lineare, procede per clip, a volte brevissime, con gli straordinari interpreti come impegnati in tanti piccoli cameo attoriali. E questa è la seconda sorpresa: altri film di Virzì ci avevano già abituati a questo “spezzettamento” narrativo ma in Siccità questo modo di raccontare è portato all’estremo e piace, all’inizio spiazza, sembra procedere stentando nel racconto ma poi convince, appassiona e coinvolge lo spettatore che aspetta il frame successivo con trepida curiosità. Si potrebbe obiettare che ai disastri ambientali più o meno prossimi il cinema ci ha ormai abituato (”Don’t look up” ne è un esempio recentissimo) e che di epidemie ne abbiamo abbastanza, ma le immagini del Tevere ormai ridotto a discarica sabbiosa a cielo aperto e l’indomita indolenza dei cittadini romani danno all’apparente cliché della trama un tocco di originalità che, appunto, sorprende.
Le prove attoriali dello straordinario cast fanno il resto: Silvio Orlando, Claudia Pandolfi, Tommaso Ragno, Valerio Mastandrea, Monica Bellucci, ma anche Max Tortora, Emanuela Fanelli, Gianni Di Gregorio (il regista di Pranzo di Ferragosto), Paola Tiziana Cruciani, Vinicio Marchioni, Andrea Renzi, Elena Lietti e i giovani Gabriel Montesi e Emma Fasano recitano in maniera splendida, diretti da Virzì come solo un maestro del cinema riesce, rendendo ogni scena in perfetta sincronia con la storia. E questa è una conferma dell’ormai costante genio del regista. Un’altra conferma è che un per essere buono un film deve anzitutto essere scritto bene: lo stesso Virzì, la regista Francesca Archibugi e gli scrittori Paolo Giordano e Francesco Piccolo fanno un ottimo lavoro in tal senso e questo dovrebbe essere di esempio a tanti registi, anche talentuosi e famosi, troppo innamorati di se stessi per preparare e scrivere una storia che poi sia efficace una volta portata nelle sale.
Il film intrattiene, diverte, commuove con garbo e appassiona. Al di là del messaggio di più facile lettura sulla deriva ambientale che il mondo sembra aver intrapreso (Virzì avrebbe definito il suo film “eco-pessimista”), ciò che con forza il film ci trasmette e ci lascia quando partono i titoli di coda è un senso di declino non tanto “fisico-ambientale” quanto umano: viviamo in una società globale che ha perso ogni tessuto connettivo, tra le persone ma anche tra le istituzioni, dentro di esse e nel loro rapporto con i cittadini. Bellissimi in tal senso i dialoghi immaginari del tassista uberiano Mastandrea con un ex Presidente del Consiglio che invita all’ottimismo ma che scopriamo essersi suicidato e le scene in cui lo Stato non è rappresentato da altri che dalle forze dell’ordine. L’epidemia non fa che peggiorare tale situazione, la solidarietà lascia spazio al ‘tutti contro tutti’ nella battaglia per l’acqua, sfatando così con ironia il luogo comune di questi ultimi, drammatici anni e cioè che l’uomo sarebbe uscito migliorato dalle prove dell’emergenza sanitaria, mentre invece ci appare sempre più abbandonato ad un’atomistica, aggressiva solitudine.
Due ultime impressioni: la prima, vorremmo vedere più spesso sul grande schermo Claudia Pandolfi, perché decisamente brava; la seconda, la locandina del film è bellissima, suggestiva, di grande impatto visivo.
Articolo del
12/10/2022 -
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