Era il 2015 quando gli addicted alle serie TV – e alla narrazione per immagini in genere - cominciarono a leggere sulla stampa e sui siti specializzati di un nuovo fenomeno mediatico, una serie TV action a bassissimo budget, prodotta dagli Yes Studios, piccola ma dinamica casa di produzione di contenuti, per lo più televisivi, di stanza a Tel Aviv. Il fenomeno di per sé non era tuttavia così sorprendente per gli appassionati: già nel 2010 Israele aveva prodotto una serie TV di genere spy, “Hatufim” (Prisoners of war), che aveva destato l’interesse non solo dei “patiti seriali” ma anche della industria dei media statunitense, cosicché la 20th Century Fox Television ne aveva acquistato i diritti per produrre la acclamata, pluripremiata e assai longeva (ben 8 stagioni) serie “Homeland”, che conquistò audience a livello mondiale. La novità sembrava però in questo caso ancora più accattivante: la serie di cui si vociferava ambiva a rappresentare il conflitto israelo-palestinese in maniera quasi “asettica”, anzi con la pretesa di dare voce anche alla parte nemica, ai palestinesi, sin dal titolo, ”Fauda”, termine arabo per indicare il caos, anche in combattimento. In più, gli ideatori della serie, l’attore israeliano Lior Raz (del tutto sconosciuto fuori dei confini dello stato mediterraneo) e il giornalista connazionale Avi Issacharoff, avrebbero tratto ispirazione diretta dalla loro esperienza in una unità commando delle forze di difesa israeliane, la Duvdevan Unit, composta di personale altamente specializzato, fluente anche in lingua araba, e nota per le sue operazioni sotto copertura direttamente nei territori palestinesi.
La curiosità e il clamore trovarono conferma a fine 2016, allorché anche in Italia viene rilasciata la prima stagione della serie. La trama segue in effetti le vicende di una unità “semi regolare” delle forze di difesa israeliane, dedita a operazioni sotto copertura e a cui spesso viene lasciato il “lavoro sporco”, che le unità regolari non possono portare avanti nel tormentato conflitto che ormai da decenni sconvolge quel pezzo di Medioriente. Tutti i componenti dell’unità parlano perfettamente l’arabo e sembrano a loro agio negli usi e costumi dei vicini palestinesi, tanto da manifestare a tratti anche una certa empatia nei confronti delle loro istanze e condizioni di vita. Soprattutto il front man, Lior Raz, nei panni di Doron, capo carismatico – anche se non effettivo – dell’unità, spesso coinvolto anche sentimentalmente dalle vicende.
La serie, pertanto, sembra mantenere agli esordi le promesse e le premesse della produzione: il budget basso non toglie nulla, anzi aggiunge autenticità alle riprese; gli attori sono perfettamente inseriti nella trama ed entrano subito nelle grazie del telespettatore; il ritmo incalzante e i colpi di scena, per lo più emotivi, tengono incollati al piccolo schermo e una puntata tira l’altra; la scrittura non risente troppo di partigianeria e se comunque l’opinione pubblica palestinese (e anche parte di quella meno schierata israeliana) protesta per un’impostazione che nella migliore delle ipotesi è semplicistica e un pelo squilibrata a favore della madre patria israeliana, la critica mondiale plaude a un tentativo non troppo mal riuscito di raccontare i dolori e le sofferenze da ambo le parti in conflitto.
Al di là delle vicende raccontate, che vedono sempre l’unità (con un nocciolo duro di componenti e qualche uscita e\o nuovo ingresso per vicende più o meno drammatiche) alle prese con il “ribelle” (le virgolette sono d’obbligo…) palestinese di turno, le prime tre serie sono un prodotto televisivo di buon livello e nonostante qualche sbavatura “ideologica”, storica e sociale, consente a un pubblico vasto e magari non particolarmente informato di cogliere la drammaticità di un conflitto che macina vite e vicende umane – da ambo le parti – ormai da troppo tempo, senza una retorica troppo evidente sulle ragioni stesse del conflitto. La serie 4, in streaming in Italia dal 20 gennaio scorso, perde invece molto dello smalto e della schiettezza – seppure sempre opinabile – delle prime stagioni. La storia si espande a Bruxelles, Libano e addirittura Siria, con un crescendo di trovate narrative piuttosto inverosimile, così come la prova attoriale di tutto il cast (e anche dello stesso Raz) appare sempre un po’ sopra le righe (più Bollywood che Hollywood). La pretesa neutralità narrativa perde forza e la retorica nazionalista fa più volte capolino sotto una patina di condivisione dei lutti e delle sofferenze.
Insomma, la serie sembra essere diventata ostaggio delle sue stesse premesse, in una forse inevitabile eterogenesi dei fini: la cronaca, nelle prime stagioni raccontata con distacco e distillata in racconto fantastico, ha finito per prendersi la rivincita, svilendo l’universalità del racconto, rendendolo in maniera più chiara di parte. La sfida se non vinta, almeno pareggiata, di astrarsi dalla cronaca allorché la prima serie veniva girata in un villaggio di frontiera della Cisgiordania durante le tensioni dell’Operazione margine di protezione da parte dell’esercito israeliano contro le forze di Hamas della striscia di Gaza, sembra persa con l’ultima stagione, che nel momento esatto in cui va in onda in Italia vede il riacutizzarsi del conflitto, anche nella città di Jenin, in Cisgiordania, teatro narrativo di questa serie 4. Da notizie trapelate sui media specializzati, sembrerebbe che la produzione stia pensando a un seguito filmico, piuttosto che a una nuova serie, un po’ come dovrebbe accadere per la superba serie inglese “Peaky Blinders” dopo 6 eccezionali stagioni. Staremo a vedere, ma qualora si dovesse mettere mano a una serie 5 consigliamo a produttori, autori e attori di prendersi una pausa di riflessione e reinventare il registro narrativo, magari con un ritorno alle origini ma comunque con più sobrietà.
Articolo del
30/01/2023 -
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