Questo è il quinto libro su Battisti. Sì, credo anche che sarà l’ultimo. Un po’ perché avverto la necessità di debattistizzarmi dopo questa esposizione così impegnativa per una persona riservata come me, un po’ perché credo di aver detto tutto quello che avevo da dire in materia. Materia che, tuttavia, continua a rivelare risvolti interessanti, zone d’ombra da illuminare, aree inesplorate, forse anche più dei Beatles (il fenomeno pop più analizzato e studiato del Novecento) che spesso vengono accostati a Battisti in quell’insidioso parallelismo “Battisti è stato per l’Italia ciò che i Beatles sono stati per l’Inghilterra”, tutto da sistemare e contestualizzare per bene. Dunque quinto libro su di lui, probabilmente l’ultimo.
Perché “E già”? Nel mio libro Un nastro rosa a Abbey Road mi ero fermato al 1980, alla separazione tra Mogol e Battisti, al loro ultimo Lp insieme Una giornata uggiosa. Avevo voglia di scoprire il passo successivo di Lucio, che si ritrova per la prima volta da solo, spaesato e spiazzato, all’inizio di un decennio così diverso – e tanto impegnativo per i protagonisti degli anni ’70 – dal precedente che lo aveva visto trionfare in classifica. Inoltre, pur non essendo mai stato un amante di E già (forse anche per motivi generazionali) a differenza di un cultore come Franco Zanetti che ha scritto la prefazione, è un lavoro che mi ha sempre incuriosito. Ancora oggi, a quarantuno anni di distanza, comunica qualcosa di forte e sorprendente: motivo per il quale ho deciso di scriverne. Aggiungo infine che mi stuzzicava l’idea di un mio libro con in copertina la salamandra rossa disegnata da Vauro, effigie della collana della Aliberti, sede ideale per un testo snello su un Battisti poco raccontato.
Ti sei addentrato nel periodo in cui Battisti comincia a scomparire. Con che difficoltà ti sei scontrato per raccontare il retroterra biografico da cui nasce il primo disco degli anni ’80 di Battisti? E già è il primo album battistiano in cui la sparizione è conclamata, certa e tangibile, ufficiale direi. Si ha la percezione netta che Battisti è solo musica, la persona e il personaggio sono scomparsi. Ci sono i suoi piedi in copertina, la sua figura luminosa di spalle all’interno, ma per il resto nulla. Niente foto ufficiali, nessuna intervista, promozione zero, etc. Tutto ciò rende poco agevole la ricostruzione di quel periodo. Ci sono però due bussole ineludibili: in primis il disco, che nella combinazione musica-testi ci dice tanto di quel Battisti; in secundis gli studi battistiani. Marco Masoni ha contato una settantina di libri, dunque abbiamo una letteratura piuttosto consistente anche se non tutti i titoli sono validi e attendibili. Mi sono stati molto utili i lavori di Bernini, Rebustini, Ciarla, ovviamente Ceri, Neri e Salvatore, per alcuni versi anche Turrini e Piancatelli ma cum grano salis; utili per capire il clima i recenti di Fabio De Luca e Luca De Gennaro su quel periodo. Per il resto mi sono avvalso di varie interviste a chi c’era e aveva visto la genesi dell’album, ovviamente anche di un po’ di stampa dell’epoca.
Trovo che la scelta di raccontare la vita di un musicista per capirne l’evoluzione artistica sia sempre la migliore. Tu però hai dovuto per necessità di cose immaginare delle situazioni e dialoghi verosimili e possibili, ma assolutamente non certi e forse nemmeno accaduti. Hai pensato al fatto che il fan medio di Battisti o il lettore casuale quasi certamente li prenderanno invece come certe e accadute quelle che sono fantasie esplicativo-divulgative? Le scelte artistiche sono sempre, o quasi, figlie della vita. Nello specifico battistiano questo è importante. Ricordo infatti il tuo sottolineare alcune vicende legate alla relazione tra Grazia e Lucio, e indirettamente a Mogol, come costitutive di alcuni cambiamenti a metà anni ’70. E il cambiamento umano, personale, privato, non può non riflettersi negli esiti artistici. E già è un album imperfetto, magari non messo a fuoco, ma è il classico caso di opera per la quale conta in modo decisivo – forse anche di più del concreto risultato finale – il percorso che porta alla sua nascita. I dialoghi ai quali fai riferimento aprono e chiudono ognuno dei quattro capitoli, sono come delle cellule narrative a sé, o perlomeno così le ho intese. Il primo dialogo a essermi venuto in mente, che poi in realtà è un soliloquio, è quello di Battisti che parla con sé dinanzi allo specchio mentre Gered Mankowitz lo ritrae durante le sedute per la copertina. Ovviamente non potremo mai sapere se quel colloquio con se stesso ha avuto mai luogo; possiamo immaginare verosimilmente il Battisti solitamente concentrato e analitico in quel momento così importante per lui, dinanzi alla sua immagine riflessa, si sia fatto qualche domanda. Studiare tanto, bene e per tanto tempo, un artista ci porta nel migliore dei casi a comprendere motivazioni, meccanismi e dinamiche del suo pensare ed agire. Non credo che la motivazione dei dialoghi sia stata la necessità, si è trattato di una scelta narrativa. Non a caso la loro collocazione è per questo motivo in apertura e chiusura, come dicevo. Era un desiderio che covavo da tempo, lo confesso. I più attenti potranno trovare un piccolo seme in Un nastro rosa a Abbey Road e ancor prima – dieci anni fa – in Alle fonti della musica radioattiva, il mio libro sugli Area. Sai bene anche tu, anzi meglio di me, che un saggista spesso si trova un po’ incastrato in un approccio alla scrittura tecnico, chirurgico e clinico, che sarebbe bene far respirare con un po’ di vivacità. Ecco la scelta del dialogo. Mi viene in mente Josif Brodskij in Fuga da Bisanzio: “Se mai un poeta ha un obbligo verso la società, è quello di scrivere bene. Essendo in minoranza, non ha altra scelta”. Non sono un poeta ma da minoritario sono obbligato, verso il lettore e verso la mia coscienza, a scrivere bene: i dialoghi ai quali fai riferimento entrano in questo obbligo, e al tempo stesso nel desiderio di cui sopra. Vero è però che non bisogna esagerare nel prendersi troppe licenze altrimenti dalla ricostruzione storica è facile volare nell’azzardo: ritengo di non aver esagerato perché si tratta di dialoghi misurati e contenuti, non accaduti ma verosimili e non irrispettosi. Non li ho dichiarati con un disclaimer, una roba tipo “dramatization”, probabilmente hai ragione e avrei dovuto, ma ho pensato che la loro collocazione in qualche modo li tenga fuori dal succo del discorso, come una parte a sé. Confido in una seconda edizione per provvedere!
Un’altra scelta che mi ha lasciato perplesso, specie per uno studioso serio come te, è stata la scelta di affidarsi in alcuni punti a testimoni che la critica giudica inaffidabili, anche se in buona fede, e di cui non voglio fare i nomi. Amo i libri corali, nei quali si possono assaporare più voci. Per un periodo così poco studiato, le interviste a chi c’era erano doverose. Ho avuto il piacere di dialogare con Andrea Barbacane, Claudio Bonivento, Patrizia Cirulli, Susan Duncan-Smith, Mario Lavezzi, Gered Mankowitz, Piero Mannucci, Dario Massari, Pietruccio Montalbetti, Michele Neri, Francesco Paracchini, Dario Salvatori e Franco Zanetti. Tutte figure che direttamente o indirettamente, per motivi familiari, artistici, discografici e giornalistici, hanno avuto a che fare con Lucio. Tutti mi hanno affidato con generosità le loro memorie o le loro riflessioni, ovviamente contestualizzate e mirate, funzionali al periodo da me studiato. Non ho difficoltà a dire che quello che sapevo fosse il meno attendibile, ossia il nipote di Lucio Andrea Barbacane, è stato di una notevole cortesia: di tutto quello che mi ha raccontato ho estrapolato solo alcuni passaggi credibili – perché confrontati con altre fonti – evitando dichiarazioni a mio avviso poco utili, poco fondate, o allusive. Non amo il gossip e il complottismo, men che meno in questo campo…
Proprio alcuni di loro sono all’origine di quei deliri complottistici che ormai ammorbano anche il mondo dei fans di Battisti: Mogol non ha scritto alcun testo, perché li scriveva Battisti; Mogol prendeva spunto da quello che gli diceva Battisti e lo metteva in bella; se il testo di una canzone è brutto lo ha scritto Mogol, se è bello lo ha scritto Battisti; Mogol impedisce che si parli dei dischi con Panella... Che pensi di questo fenomeno e di queste credenze? Non posso che pensarne male. Purtroppo un certo radicalismo del pensiero, un clima di sospetto alimentato da frustrazioni personali, una lettura adolescenziale e superficiale della Storia e delle storie creano valutazioni frettolose, infondate, spesso anche stupide. Negli anni di gioventù ho fatto il cronista per il quotidiano della città in cui vivo: un’esperienza preziosa di apprendistato, una palestra che mi ha insegnato tanto, a partire dalla valutazione delle fonti. Ogni tanto salta fuori sui social qualche illustre sconosciuto/a che dice che da fonte sicurissima sa che Battisti modificava i testi e che tante volte cantava cose scritte da lui ma firmate Mogol, un altro una volta mi ha detto di aver visto Battisti al comizio di Almirante, ed era proprio lui, ha fatto anche il saluto romano… direi che la vicenda battistiana è ampiamente raccontata in tanti testi di valore e di spessore, a partire dai tuoi, e dovrebbero essere questi i riferimenti, non il sentito dire o il complotto ai danni di tizio o caio.
I fans del periodo panelliano spesso sono scatenati in una specie di damnatio memoriae di quello con Mogol. Un tuo parere anche su questo. Ricordo un programma tv un po’ stupido di Monti e Lorenzini, che rivolsero una delle domande più stupide del mondo a Piero Pelù: «Ma te sei più Beatles o più Rolling Stones?» E Piero, per niente stupido, rispose: «Ma io sono sia Beatles che Stones, e sono anche Iggy Pop, e sono anche Lou Reed, e sono anche David Bowie!». Che bello il non parteggiare, il non essere parte e godersi il tutto. Per quanto mi riguarda, mi godo in egual misura ma smisuratamente Il tempo di morire e Ecco i negozi, mi sbrago quando ascolto Ami ancora Elisa e Fatti un pianto, mi emoziono con Questo inferno rosa e Specchi opposti. Per me esistono un Battisti e un patrimonio di canzoni scritte in tempi diversi, con suoni diversi e autori diversi. Non sono un fan, non sono sulla barricata, mi godo tutta la musica che voglio. Devo però aggiungere che nei primi mesi del 1989 il mio primo contatto da ascoltatore con Lucio fu L’apparenza. Vengo da lì, quello fu il mio primo album – anzi avevo la cassetta, se non ricordo male taroccata… – e il mio imprinting battistiano parte dal periodo Panella. Colgo sempre l’occasione per parlare dell’altro Battisti, per citare Andrea Podestà e il suo libro Battisti, l’altro. È importante parlarne sia perché si tratta di grande musica, con una portata rivoluzionaria ancora oggi intatta, sia perché è bene agire affinché non venga dimenticata, come accaduto in un recente documentario.
Sei stato coinvolto nel recente documentario RAI “Lucio per amico. Ricordando Battisti” di Maite Carpio, oggetto di feroci critiche perché, sostanzialmente, si ferma prima del 1974, vola velocissimo sugli ultimi anni (ben cinque per sei album) con Mogol, ignora completamente la produzione successiva. Avevi idea che uscisse una cosa del genere? La scorsa estate fui contattato dalla produzione perché, dopo aver letto il mio libro Il nostro caro Lucio, ritenevano che quel testo potesse essere una sorta di falsariga da seguire, trattandosi di una biografia completa; credo che abbiano proceduto nello stesso modo con Ernesto Assante, autore di una biografia recentissima per Mondadori e coinvolto come consulente artistico. Ho rilasciato una lunga intervista in cui ho raccontato tutto Battisti, compreso ovviamente quello degli anni ’80 e ’90. L’ho fatto con enorme piacere perché avevo tante cose da dire, dopo vent’anni di radio credo di avere una discreta dose di sintesi e una certa rapidità di eloquio, insomma credo di aver dato un contributo sufficientemente dignitoso. Come tutti ho visto il risultato la sera del 13 settembre e sono rimasto un po’ perplesso dalla incompletezza: mi è stato detto che anche Mogol non ha visto il montato, dunque presumo che nessuno di noi intervistati potesse avere voce in capitolo per intervenire in tempo. Successivamente le autrici mi hanno comunicato che non avendo immagini disponibili del periodo post Mogol, e non potendo neanche mostrare le copertine dei dischi bianchi, hanno ripiegato sul materiale che avevano a disposizione, meno insidioso dal punto di vista giuridico. Al di là di questo, rispondo alla tua domanda dicendo: no, non avevo idea uscisse una cosa del genere, Battisti è anche altro, oltre Mogol. Ma provo ad allargare la riflessione e a ragionare su un limite ormai evidente del docufilm: visto che Battisti è complesso e sfugge da ogni parte, probabilmente bisogna pensare ad altri media per raccontare la sua storia…
La tua prossima mossa? Ho appena cominciato gli studi per un prossimo libro che uscirà a natale del 2024. Tempi lunghi perché si tratta della storia di una delle più grandi rock band di sempre. Un mio antico amore, sul quale non avevo mai pensato di scrivere, ma all’improvviso è arrivata una proposta interessante che ho colto al volo. L’indizio che posso darti è che riguarda molto da vicino il tuo libro Sesso, droga e calci in bocca…
Articolo del
23/10/2023 -
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