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Tobia Lamare
Tobia Lamare: navigando dentro le intimità del nuovo disco.
di
Domenico Capitani
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Il taglio lo conosciamo e non si smentisce, semmai si amplifica: da Nash a Dylan, dalle derive digitali (dal retrogusto francese) al surf di tradizione. E tantissimo altro in un disco che è ancora al tempo passato anche per il come è stato concepito, suonato e inciso. E da Tobia Lamare sicuramente non ci possiamo mai aspettare cose banali… per fortuna… uno di quei porti sicuri!!! Come sono porti sicuri i suoi tanti strumenti che altrimenti avremmo perduto di vista… quindi cari amanti del suono e di strumenti di qualche generazione fa, è anche (o sopratutto) per voi questa intervista!!! Prendete nota…
Un disco figlio di questa pandemia? La solitudine è un punto centrale se non sbaglio… Durante la pandemia ho avuto un isolamento diverso perché abito con la mia famiglia in campagna quindi ho passato molto tempo all’aria aperta e con loro. La lontananza dai concerti, dalle serate, dalle chiacchiere da bancone o nei negozi di dischi però non l’avevo mai immaginata né sperimentata. Ci sono riferimenti più o meno espliciti verso la solitudine. “Young Bee” è la vera ricerca di evasione mentre in “Sleeper” c’è la perdita dell’orientamento quando ti senti completamente diverso da tutto il mondo che ti circonda. “Play for today” e “Just a little love song” hanno in comune la lontananza dalla persona che ami e “Poly Love” attraversa quello stato d’animo in cui capisci che i tuoi desideri non hanno valore per le altre persone.
E per restare sul tema, se non erro nel disco incontriamo solo Andrea Miccoli alla batteria e non sempre… insomma: come mai questa scelta di solitudine? Parto però dal dire che invece Andrea suona nel disco perché è un batterista incredibilmente bravo che riesce a interpretare le atmosfere che gli propongo. Non è solitudine ma per la prima volta ho composto e arrangiato il disco in studio. Registravo tantissime tracce: giri di basso, chitarra, voci e arrangiamenti diversi per la stessa canzone. Poi le provavo nei dj set e vedevo che effetto facevano. Così tornavo in studio e cambiavo di nuovo tutto. Per ogni pezzo credo di avere dieci versioni prova. La solitudine l’ho sentita mentre dovevo scegliere cosa togliere e cosa lasciare. Spesso mi facevo consigliare da amici che conoscono il mio suono da molti anni e che, ovviamente, avevano tutti punti di vista diversi. E’ stato un processo creativo molto lungo ma allo stesso tempo stimolante.
La scusa buona per dare voce a tutti i tuoi suoni? Oppure è stata la scusa buona per scoprirne di altri? La libertà di poter registrare qualsiasi cosa c’è stata e me la sono presa. Poi ho anche cancellato tanto. Ovviamente è stato bellissimo poter giocare con un po’ di vecchi synth che avevo appena comprato. Alcuni suoni non so nemmeno come riprodurli allo stesso modo. Pensa che le tracce di apertura e chiusura sono state fatte con una Mc202 della Roland. Non ho pensato nemmeno per un minuto di segnarmi i parametri…riuscirò prima o poi a ritrovare il suono esatto. Ho scoperto alcuni ampli e strumenti che avevo comprato e che non avevo ancora usato. Tutte robe un po’ vecchie e che hanno un suono particolare. Ho anche giocato molto con i riverberi naturali della casa e qualche effetto analogico. Praticamente ho registrato usando la stessa impostazione di come registravo sul quattro piste negli anni novanta, infatti qualche traccia l’ho ripresa prima su cassetta e poi passata in digitale. Ho preso un po’ di tempo in più del solito ed è stato bello.
Che tipo di elettronica hai usato? In “Ballata per droidi” ho come sentori di Jean Michel Jarre… sbaglio? Grazie per la domanda. “Ballata per Droidi” è registrata interamente con un Hammond del 1974 che ha anche molteplici voci di synth, arpeggiatori, arrangiamenti di basso e delle drum che farebbero svegliare vecchie glorie delle balere svizzere o del lo-fi. Tutto super kitch. Il pezzo nasceva per uno spettacolo di qualche anno fa dedicato a Ballard scritto da Nino G. D’Attis. Così l’avevo lasciato un po’ nel cassetto e questo è stato il momento giusto per riprenderlo e fare girare il leslie. Ho usato spesso una Poly 800 che ho acquistato dopo aver visto le prime due serie di Stranger Things in tre giorni (non avevamo niente da fare). Una drum machine della Akai, la rhythm wolf. Un paio di MicroKorg, un organo Eko degli anni ‘70, una keytar e una drum machine della Yamaha penso dei primi anni novanta. Una specie di Eko Tiger giapponese. Qualche delay e riverberi analogici sparsi.
Invece se ti chiedessi di strumenti “antichi”? Ci sono molti richiami al bluegrass, al folk… L’armonica è uno degli strumenti che porto sempre dietro e che mi piace molto suonare. “Take my Hand” prende ispirazione da un traditional bluegrass “I’ve been all around this world”. E’ la storia di una persona che gira il mondo lontano dal suo amore e per la lontananza si mette a piangere e dalle sue lacrime crescono fiori giganti che sono alti come alberi. Mentre “Fiddler Jones” è una trasposizione in canzone della poesia di Edgar Lee Masters. Questa poesia, tratta dall’Antologia di Spoon River, ha il bluegrass dentro anche perché parla di un violinista che suona per far ballare gli altri e che rimane senza un soldo perché non riesce a coltivare la sua terra. Rimane anche però senza nessun rimpianto. Vero spirito bluegrass.
Il video di “Hoopoes” è una dedica esplicita alla tua tana creativa… o sbaglio? Vero la prima dedica è sulla R4 che ha portato le mie band e quelle di mio fratello in giro a volte per l’Italia carica di strumenti. Dopo un viaggio Firenze Lecce carica di ampli e synth non si accese per tre giorni. Poi per miracolo risorge da sola senza nessun meccanico. Nel video si vede l’ambiente in cui registro i dischi. E’ il mio suono. Regolo il riverbero spostandomi di stanza in stanza. Era una dedica dovuta. Si intravede qualche tastiera e molto casino. Credo che ci siano dei dischi appoggiato da qualche parte, mi ricordo uno degli Smiths, non so se si riconosce. E’ un video lo-fi dove spero escano le cose belle che ci sono dentro e dove provo in maniera molto naturale a presentare il mio mondo.
Mentre nel video di “Candies” hai scelto immagini “mute” degli anni… ’50-‘60? Anche più vecchie. Le ballerine plastiche vengono da una scuola di danza di Berlino del 1930. Le proto drag queen vestite da egiziane sono verso la fine degli anni ’40. Quando ho trovato quegli spezzoni ho percepito un’intensità incredibile. Il brano è una fotografia di un’alba sul mar Adriatico nel Salento, zona San Foca. Intorno alle sei del mattino c’era un interregno in cui le anime della notte incontravano quelle del giorno. Vivevano insieme un momento che conservava un’energia incredibile e che sembrava fuori da ogni contesto. Come dei college boys new yorkesi vestiti da Cleopatra nel 1947 o delle ballerine plastiche berlinesi nel 1930.
Articolo del
07/06/2024 -
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