Più che una biografia, questa è un’agiografia, ovvero la vita di un santo. O meglio, vorrebbe esserlo. Per tre motivi: uno, la convintissima fede cristiana di Lenny Kravitz; due, la convintissima fede cristiana dell’autore; tre, il fatto che l’autore sia anche il fondatore del fan club italiano dell’artista in questione. Ora, per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, vorrei mettere in chiaro fin da subito che non ho nulla contro qualsiasi fede religiosa, tantomeno quella cristiana, e che quindi non sta qui il difetto della biografia (sarebbe come criticare una biografia di Freddie Mercury perché si è omofobici – e io non sono né omofobico né teofobico). Il difetto che incombe su ogni racconto di una star da parte di un suo fan è invece ben noto: e cioè che tutto sia bello, fantastico, incommensurabile. Non è quello che ci si aspetta da una biografia. È ovvio che una biografia sarà sempre scritta da un appassionato di quella personalità, ma un appassionato è cosa ben diversa da un fan, parola che non a caso deriva da fanatico (in inglese “fanatic”), che a sua volta deriva dal latino “fanum”, ovvero “tempio”, che indica chi è estremamente zelante nei confronti di una divinità. Da notare che “divo” e “star”, cioè “stella”, sono termini appartenenti alla stessa area semantica, quella della luce. Solo che qui c’è un altro tipo di luce che complica le cose: quella della fede. Kravitz, come ben chiarisce questa biografia, è fortemente credente e ha impegnato molto energie nel superare le tentazioni di questo mondo per aderire al modello di vita cristiano. Ciò non è affatto in contraddizione con la ricchezza e il successo di cui gode: e bene il libro mette in rilievo le sue proprietà e le sue molteplici imprese (oltre a fare il musicista, Kravitz è anche un apprezzato designer di oggettistica per superricchi). Il buon Lenny è nato infatti da madre originaria delle Barbados, dove è preponderante la teologia calvinista (comune anche agli anglicani, per dire), la quale afferma che segno della Grazia di Dio e della predestinazione al paradiso sono proprio il successo nel lavoro e la ricchezza, se entrambi ottenuti agendo da buoni cristiani (i calvinisti mi perdonino per la banalizzazione del concetto). E allora come e perché la fede complica le cose? Perché anche questa biografia (che peraltro ha il pregio di non avere UN errore di italiano, cosa rarissima, oggi) vuole fare proselitismo, convincere che questa sia la strada giusta. Anche fin qui, opinabile, ma nulla di male. Solo che lo fa nel modo sbagliato: lo zelo della fede elimina lo zelo del fan là dove sarebbe stato necessario, e cioè nel racconto dei peccati in cui è caduto Kravitz e delle tentazioni che ha dovuto affrontare. Invece vengono solo accennati, molto ma molto alla lontana. Eppure nella vita dei santi (così come nel Vangelo) le tentazioni sono ben illustrate, perché è proprio mostrando la loro potenza e seduttività che risalta la grandezza della scelta di vita religiosa del santo. Ma, qui, niente aneddoti succosi. In cosa si traduce allora lo zelo del fan credente in “God is Love”? Nell’alternarsi a capitoli narrativamente ben fatti (pur con il vizio di origine di cui sopra) di altri in cui si procede a news giorno per giorno, ripresi dalle news del fanclub (non me lo invento io: lo dichiara onestamente l’autore). In scalette di concerti praticamente uguali riportate due volte di seguito. In una lunghissima intervista a Zoro, uno dei due batteristi storici di Kravitz, che, invece di approfondire gli aspetti aneddotici o, meglio ancora, strettamente musicali legati a Lenny, si diffonde in pipponi lunghi pagine sulla necessità di resistere alle tentazioni della carne. In una scheda di approfondimento su uno dei collaboratori storici di Kravitz, il fotografo Bitton, che consiste quasi totalmente nella bio del suo sito tradotta. Sorvolo sulla profondità del saggio finale sui testi di Kravitz. Alla fine pure il bene che Kravitz fa con la Let Love Rule Foundation, che opera in Africa per la riabilitazione dei bambini soldato e delle donne costrette a prostituirsi, viene poco trattato. Rimane solo il senso di un glamour vuoto e parolaio, un po’ come le camicie di Formigoni (per chi se le ricorda). Povero Lenny.
Articolo del
04/05/2015 -
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