Ponderosissimo e ambizioso saggio questo di Maurizio Fantoni Minnella, scrittore, pubblicista, saggista cinematografico, documentarista e studioso di letteratura in lingua spagnola, prima parte di una trilogia che promette altri due volumi dedicato uno al cinema e alla letteratura. Lo spazio temporale preso in esame è quello del Novecento, secolo che per Minnella è ben lungi dall’essere breve: secondo il critico varesino, infatti, anche gli anni che stiamo vivendo rientrano nel clima culturale del secolo scorso e, in effetti, ha tutte le sue buone ragioni per affermarlo, data l’incapacità delle arti di esprimere forme nuove rispetto a quelle del recente passato. Minnella passa in esame TUTTI i generi musicali del Novecento, dal rock al jazz, dalla colta contemporanea alla world music (definizione che per lui è valida solo per la parte commerciale, globalizzata e snaturata delle musiche del mondo), dalla sperimentazione di avanguardia ai revival musicali che si sono succeduti nel tempo (c’è perfino un capitolo dedicato ai revival della musica medievale e rinascimentale). La conoscenza messa in campo è vastissima, quasi scaruffiana, ma, a differenza del critico italo americano, appare credibile e circonstanziata. Appaiono quindi trascurabili alcune imprecisioni che compaiono qua e là e, diciamocela tutta, fanno accapponare la pelle all’appassionato: “Imagine” di John Lennon viene definita una canzone dei Beatles (è uscita nel 1972, nel secondo album solista di Lennon; e i Beatles si erano sciolti nel 1970) e chiamata “Image” per ben tre volte (tutte quelle in cui viene citata); si afferma che “Theme One” di George Martin, nella versione dei Van Der Graaf Generator, sia uscita solo su singolo, mentre si sa che figura nelle versioni Usa e canadese dell’album “Pawn Hearts” (e Usa e Canada non sono propriamente due mercati trascurabili); non è possibile dire che “Quadrophenia” degli Who non sia stata uguagliata da “Tommy”, perché la prima è del 1973, il secondo del 1969; Wystan Hugh Auden è stato un poeta inglese, non americano. E giudico solo sulle parti su cui sono più competente, ovvero rock e letteratura: il che mi fa presupporre che analoghi errori siano presenti nei tanti capitoli dedicati a musiche diverse dal rock. In ogni caso, questi errori non inficiano il significato e a potenza dell’affresco che Minnella dipinge. Il punto di vista da cui l’autore guarda alle musiche del Novecento è – dichiaratamente e programmaticamente – quello di un ascoltatore. Il fine primario è quello di dimostrare che non esiste una musica del Novecento (o di qualsiasi altro secolo), bensì, appunto, tante musiche e che quindi la prospettiva di ascolto in cui la maggior parte di noi si pone è fortemente limitata, il che è senz’altro vero. Spesso Minnella riferisce con toni tra lo stupito e l’infastidito (legittimi) prese di posizione di altri ascoltatori che dichiarano assolutisticamente che la loro musica preferita è l’unica, salvo poi cambiare radicalmente idea a favore di un altro genere o abbandonare del tutto quella che si rivela nulla più che una passione giovanile. L’esperienza di ascolto di Minnella è invece esperienza di crescita umana, intellettiva ed esistenziale, che ambisce ad essere totalizzante. Il primo capitolo è dedicato al rock perché è la prima musica cui Minnella si è accostato, per dirigersi poi sul jazz, la colta e via dicendo. Significativamente, in una ricerca di crescita artistica della musica, il rock per Minnella esaurisce la sua funzione storica con quello che per lui è il suo culmine, ovvero il progressive anni ’70. Altrettanto significativamente, nel libro non hanno spazio il blues e le altre musiche afroamericane, che pure hanno giocato un ruolo importante ed essenziale nella definizione di tanta parte della musica popolare (sorvolo sulla differenza e l’evoluzione da folk a pop tipica del passaggio da una società preindustriale alla società di massa). E si tratta solo di un paio di esempi. Minnella si scaglia contro al rinnegamento del prog operato dal punk e sul rifiuto del pubblico di massa ad accostarsi alla cosiddetta musica classica, considerando invece tale approdo come naturale per chi sia passato attraverso il progressive. È qui che si palesa uno dei punti più opinabili e discutibili del libro. Minnella non tiene conto che il pubblico del progressive anni ’70, pur baciato dal successo, non era tutto il pubblico, ma quello costituito dagli studenti della media e piccola borghesia in rivolta generazionale, che pur tuttavia si portavano inevitabilmente dietro il loro bagaglio culturale. I proletari in Italia ascoltavano il pop melodico tradizionale (Claudio Villa, Massimo Ranieri); in Usa o hard rock o pop smielato alla Carpenters. Quindi il pubblico di massa non si è accostato e non si accosta alla “classica” semplicemente perché non è nel suo bagaglio culturale. Quando poi gli studenti della media e piccola borghesia crescono, lavorano, mettono su famiglia, semplicemente smettono, in gran parte, di volersi ribellare e quindi, dato che la musica aveva rappresentato il loro spazio di ribellione (che spesso, dato le tematiche e le suggestioni musicali del prog, era una fuga in uno spazio interiore), smettono di ascoltare musica. Processo che vale per tutte le classi sociali. Altro punto debole dell’analisi minnelliana è nel capitolo sulla canzone politica, nella cui valutazione viene privilegiata la componente testuale rispetto a quella musicale (spesso, come sappiamo, insignificante). È vero che nella forma canzone testo e musica sono un’unità inscindibile che fa della canzone un’opera strutturalmente diversa tanto dalla poesia (e ha ragionissima Minnella a scagliarsi contro la qualifica di poeta data a diversi cantautori, quando essa non sia da intendersi in senso lato) quanto dalla musica strumentale. Ma basarsi quasi solo sulla componente testuale in un saggio che affronta la musica dal punto di vista di un ascoltatore di musica significa, a mio avviso, trasgredire all’assunto fondamentale per cui la musica dovrebbe essere la prima cosa. E porta infatti Minnella a non riconoscere la validità di canzoni dal testo molto stupido, ma dalla musica molto valida. Parlando di musica, questa dovrebbe avere il sopravvento sempre. E qui si tocca un punto fondamentale: quello di Minnella non è il punto di vista di un ascoltatore (con accentuazione dell’esperienza di ascolto), ma di un ascoltatore (con accentuazione della sua singolarità individuale). E ciò si evidenzia anche stilisticamente nella sua opera, che passa improvvisamente e ripetutamente dalla prima persona singolare, usata quando Minnella si pone come semplice ascoltatore, a un fastidioso plurale majestatis (che oggi usa solo il Papa), quando si erge a giudice delle opinioni altrui. Fastidioso indipendentemente dal fatto di avere ragione o no, perché in quel plurale majestatis vi è appunto tutto il peso di un giudizio che assume caratteri tribunalizi, assoluti e morali, invece di limitarsi ad essere soggettivo. È questo un altro punto suscettibile di critica: il configurare l’esperienza di ascolto e di comprensione di tutte le musiche esistenti come autentico percorso di esperienza esistenziale ed artistica al tempo stesso non tiene conto di diverse cose. Innanzitutto del fatto che questo percorso, ideale in sé, abbisogna di un’adeguata cultura. Poi di tempo e possibilità economiche (il capitolo sui viaggi in Europa orientale alla scoperta di compositori ignorati dalla distribuzione occidentale è in questo senso emblematico). Inoltre, delle condizioni lavorative in cui si trova l’ascoltatore: è assurdo ipotizzare che un operaio, un operatore di call center, un commesso, tornati a casa dopo una giornata di lavoro si ascoltino Luigi Nono che esprime nella sua musica l’alienazione della fabbrica. Infine, ferma restando l’insostenibilità della posizione di chi sostiene che quella che ascolta sia l’unica vera musica, rimane il diritto di una persona ad avere una o più musiche preferite o anche esclusive: quelle che parlano alla sua anima. Alla luce di queste considerazioni, la posizione di Minnella mi appare sostanzialmente crociana, liberale ed elitaria (nonostante si scagli più volte – e giustamente – contro lo snobismo musicale: ma il suo è uno snobismo musicale diverso), quindi reazionaria. Posizione legittima, ma che stupisce in uno come Minnella, che ha una biografia tutta improntata a sinistra. O non stupisce, considerando come da tempo la cosiddetta sinistra abbia abdicato in tutto al pensiero neoliberale e neoliberista. Si tratta solo, ecco, di chiamare le cose col loro nome vero. Il saggio, superata la breve introduzione, non è affatto di difficile comprensione, anzi (se si eccettua l’irritante tendenza a mettere la virgola tra soggetto e verbo e tra verbo e oggetto, non solo errore sintattico, ma anche appesantimento della scorrevolezza della lettura), e lo consiglio vivamente, pur nella diversità di opinioni, per le prese di posizione comunque motivate e stimolanti (le stroncature del Miles Davis post-“In A Silent Way”, di Franco Battiato e di Ludovico Einaudi sono solo un esempio) e gli orizzonti culturali che apre. Buona lettura.
Articolo del
25/02/2016 -
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