“La cartolina qui/ mi dice terra terra / di andare a far la guerra/ quest’altro lunedì/ Ma io non sono qui / egregio presidente/ per ammazzar la gente/ più o meno come me”.
In principio fu Boris Vian a scrivere una pietra miliare della canzone antimilitarista nel mondo, il Disertore. In Italia accadde tutto in fretta in piena beat revolution. Sino ad allora nelle canzoni non si parlava di pace, fatta eccezione per i canti di tradizione popolare. Lo racconta Enrico de Angelis, storico della canzone, tra gli artefici del Premio Tenco, nel libro “Coltivo una rosa bianca”, pubblicato da Volo Libero. Furono Tenco, De André, Jannacci, Endrigo a spostare i racconti dagli amori avvinti come l’edera alle atrocità della guerra. La beat revolution, dalla generazione di Kerouac e Ginsberg, sconvolse la scena musicale e i cantautori incominciarono a descrivere la realtà con parole mutuate dalla letteratura o dai racconti di chi la guerra l’aveva appena passata. Realismo e anche ironia per Jannacci, Dario Fo e Edoardo Bennato ma in ogni caso tutti con un unico filo conduttore: il pacifismo.
Già ma quale pace? Non basta dire no alla guerra se nella società mancano i diritti e crescono le diseguaglianze e questo aspetto lo ha affrontato Fabrizio De André il quale, alla caduta del Muro di Berlino, parlò per primo, nella Domenica delle salme, di pace “terrificante”. De Angelis sostiene che le canzoni siano uno strumento di educazione civica e spiega: “Ho studiato al liceo classico e la scuola ci ha fatto conoscere le guerre ma non ci ha insegnato il concetto e il valore della pace. Questo l’ho imparato dai cantautori”. L’autore del libro dedica il primo ritratto a Luigi Tenco il quale nel 1962 incide una canzone, “Cara maestra”, tre strofe rivolte rispettivamente a una maestra, a un prete e a un sindaco che in precedenza era stato un podestà. Non ci sono cuori infranti, l’argomento è delicato e la Rai censura la canzone: “Egregio sindaco/ m’hanno detto che un giorno/ tu gridavi alla gente “vincere o morire” / mi vuoi spiegare allora come mai/ vinto non hai, eppure non sei morto/ e al posto tuo è morta tanta gente/ che non voleva né vincere né morire”.
È lo stesso Tenco che diventa attore in un film di Luciano Salce, “La cuccagna”, recitando la parte di un ragazzo che si batte contro il militarismo quando l’obiezione di coscienza non era contemplata e veniva punita col carcere. Nello stesso film Tenco canta la canzone di un amico, uno sconosciuto: è il ventiduenne Fabrizio De André. Tenco non approfitta del film per far conoscere una canzone propria ma, accompagnandosi alla chitarra, intona La ballata dell’eroe, in assoluto il primo brano che De André ha scritto contro la follia della guerra. La storia di un soldato che non torna a casa e della moglie che non sa che farne della medaglia conferita alla memoria del marito. Le prime canzoni antimilitariste non si limitano a raccontare di chi ha dato il sangue per la patria e mettono sullo stesso piano il dramma di chi muore e quello di chi uccide. L’esempio più alto lo troviamo in quello che secondo Fernanda Pivano doveva essere il manifesto del pacifismo: “La guerra di Piero”.
Il soldato trova di fronte a sé un coetaneo e dovrebbe spararlo solo perché ha la divisa di un altro colore. Non lo fa per non vedere gli occhi di un uomo che muore e viene ucciso. Ovviamente la musica italiana risente di quanto stava accadendo in America negli anni Sessanta, quel vento di suoni nuovi che soffiavano tra coloro che manifestavano la solidarietà a Martin Luther King e assistevano ai comizi di John Kennedy. Una cospirazione sonora ordita da chi ascoltava Woody Guthrie e Pete Seeger, voce e chitarra, suono puro e odore di terra. Canzoni distanti dalle orchestre e dal night di Sinatra. E ascoltando poco dopo “Blowing in the Wind” dalla voce nasale di Bob Dylan non era facile prevedere quello che sarebbe accaduto poi in tutto il mondo.
I giovani sognavano un modo di vivere diverso, senza potere e senza consumi. In quell’America era possibile una certa bohème e i poeti declamanti precedevano di poco l’esplosione della canzone. In Italia Tenco compone una serie di ballate che saranno pubblicate postume: sono brani come Ballata della moda, (dove anticipa le storture di quello che sarebbe stato il marketing), e Giornali femminili dove la chiave di lettura è l’ironia: Tenco finge di indignarsi per i presunti interessi futili delle donne e mette gli uomini alla berlina. Il secondo ritratto di de Angelis riguarda De André di cui abbiamo già accennato e la cui produzione antimilitarista è una costante del suo canzoniere. C’è non violenza e tolleranza nei dischi di Faber ma due canzoni riguardano altrettanti fatti storici: Fiume Sand Creek e Sidun. Lo sterminio compiuto dal colonnello Chivington ai danni di una tribù di indiani, nel villaggio in cui c’erano solo donne e bambini perché gli uomini davano la caccia al bisonte e poi Sidone messa a ferro e fuoco nell’estate del 1982 dal generale israeliano Sharon.
De André canta qui la morte di un bambino massacrato dai cingoli di un carro armato e tenuto in braccio dal proprio padre. Quella morte segna la fine di una civiltà. Il titolo del libro, “Coltivo una rosa bianca”, cita una poesia del cubano José Martì, ripresa da Sergio Endrigo il quale, con la sua elegante coerenza, ha scritto a lungo della guerra e, in particolare, della tragedia dei profughi istriani; la sua famiglia era tra gli esuli che lasciarono l’Istria passata sotto la dominazione del Maresciallo Tito. Lo racconterà in un testo davvero poetico, 1947: “Come vorrei essere un albero che sa dove nasce e dove morirà”. Coltivo una rosa bianca è metafora di pace e Sergio Endrigo ebbe modo di cantarla in un concerto davanti a Che Guevara; era il 1964 a Cuba. Il cantautore di “Io che amo solo te” e tanti altri successi non ha mai nascosto l’ansia di giustizia e il disprezzo per la guerra.
Le sue canzoni di impegno civile restano attuali per lo smascheramento delle guerre di religione alle quali dedica due distinte strofe: una sulle ragioni dei Cristiani e una su quelle dei musulmani. Un occhio alla storia e un altro alla poesia, Endrigo ebbe un rapporto stretto con i poeti accademici tra cui Pierpaolo Pasolini con il quale firmò una canzone, “Il soldato di Napoleone”. Un brano che destò scalpore e, manco a dirsi, fu censurato dalla Rai per un verso – giudicato improponibile dal Catone dell’epoca – in cui un soldato, colto dal gelo della campagna di Russia, squarcia il ventre del cavallo per cercare un po’ di tepore vitale. Un fatto in uso tra i militari che battagliavano in Russia e riportato persino in Guerra e pace; la Rai chiese a Pasolini e a Endrigo di cambiare le parole ottenendo un rifiuto. Di sarcasmo e di humor nero sono vestite molte canzoni di Enzo Jannacci. De Angelis ricorda un particolare su “Vengo anch’io no tu no”, brano firmato da più mani.
C’era un verso, scritto da Dario Fo all’indomani della proclamazione dell’indipendenza del Congo dal Belgio e della conseguente sanguinosa dittatura di Mobutu, per lo scontro tra filosovietici e filoccidentali: “Si potrebbe andare tutti insieme nei mercenari / giù nel Congo da Mobutu a farci arruolare/ poi sparare contro i neri col mitragliatore/ ogni testa danno un soldo per la civiltà”. In questo caso fu la casa discografica, la Rca, a far sparire la strofa incriminata. Nel libro c’è un limite oggettivo: De Angelis analizza solo i testi ma alcune canzoni devono essere valutate ascoltandone il ritmo, la voce, le intenzioni di chi le interpreta. È il caso di Edoardo Bennato che canta il contrario di quello che vuole dire e lo fa magari deformando la voce in modo grottesco: “Sei un soldato e difendi la libertà/ e quelli contro sono cattivi/ dì loro di non aver pietà! / E se per caso tu morissi non devi temere/ perché ti faremo un bel monumento che tutti quanti/ potranno vedere”.
Bennato, ironia a parte, spiega e canta che la guerra non è mai santa perché è mossa da ragioni economiche. Buffoni e burattini non fanno la guerra. Per chiudere il libro sulla non violenza dei cantautori, De Angelis arriva a Caparezza perché i testi del rap si sono rivelati molto sensibili alle problematiche delle disfunzioni sociali e delle questioni civili. Caparezza sin da subito mise le cose in chiaro: “Ma dai, non mi vorrai nei viavai di guerrafondai”, canta in “La gente originale”. E prevale il pacifismo raccontato con l’apologo di una particolare specie di scimpanzè, i bonobo, che vivono in comunità pacifiche, in cui maschi e femmine hanno pari dignità, non conoscono la guerra: “Insomma, stando a come si comporta il bonobo, la scimmia è l’evoluzione dell’uomo”.
Il libro ha la prefazione di Luigi Ciotti ed è stato corredato dai disegni di Milo Manara e di Massimo Cavezzali; i proventi saranno devoluti al Movimento Non Violento, presieduto da Mao Valpiana. La conclusione è chiara: è vero che esistono le marce militariste e gli inni sanguinari ma i soldati in prima linea o i kamikaze pronti a farsi esplodere si drogano o si ubriacano per annebbiare la mente. La musica è un’altra cosa: “La nostra vita dev’essere piena di musica”, disse il Mahatma Gandhi che di non violenza si intendeva davvero, “in modo che la melodia pervada tutte le nostre azioni”.
Articolo del
20/01/2021 -
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