Ci chiama un amico che ci propone di andare a vedere Burt Bacharach in concerto a Roma e rispondiamo di no, seguendo una sorta di istintiva reazione pavloviana. E’ vecchio, è bollito. E’ Las Vegas. E di recente ha pure scritto That’s What Friends Are For. Attacchiamo la cornetta. Poi però ci rimuginiamo sopra: se pensiamo ad alcuni degli album che amiamo di più, c’è SEMPRE almeno una cover di Bacharach che abbiamo ascoltato e riascoltato fino all’usura. Baby It’s You, dal primo disco dei Beatles, è di Bacharach. My Little Red Book dei Love di Arthur Lee. Sempre di Bacharach. Trains And Boats And Planes dei Box Tops di Alex Chilton, ancora Bacharach. Walk On By di Isaac Hayes, manco a dirlo. I Just Don’t Know What To Do With Myself, prima di Dusty Springfield, poi nella recentissima versione dei White Stripes, sempre del vecchio Burt. E ci torna anche in mente di quella volta, diversi anni fa, quando per un altro magazine (su carta) ci diedero da recensire una compilation della Rhino di Dionne Warwick, e fummo colti da una sorta di rivelazione: non c’era un pezzo debole, erano tutti una bomba e tutti, proprio tutti, composti da Bacharach (e da Hal David che gli scriveva i testi). Decidiamo di richiamare il nostro amico.
Andiamo quindi a rendere omaggio al Maestro Bacharach, in un Auditorium dove, a livello di pubblico, c’è di tutto: ultrasettantenni già ammiratori di Perry Como e Gene Pitney, topi di negozi di dischi, fighetti del lounge-set, fan di Rupert Everett e Dusty Springfield, stelle e stelline della tivvù, e anche ragazzini che hanno visto i film di Austin Powers e sono rimasti incantati da quell'anziano signore.
Bacharach sale sul palco con una buona mezz’ora di ritardo, nell’immancabile completo bianco senza cravatta, dà l’idea di uno che ha vissuto una vita da sogno, un gioviale signore americano senza un problema per la capa che non sia quello di comporre l’ennesimo successo. Un gruppo di 7 elementi (con 3 cantanti) gli fa da spalla, si parte con la sigla iniziale – che poi sarà anche finale – What The World Needs Now Is Love, già incisa da Jackie De Shannon nel 1965. Poi Bacharach introduce il primo di una serie di medley, quello dell’epoca d’oro con Dionne Warwick e Hal David, che era proprio quanto eravamo venuti a vedere. Se li spara tutti subito in sequenza, Bacharach, i suoi capolavori di pop orchestrale Walk On By, I Say A Little Prayer, I’ll Never Fall In Love Again, Reach Out For Me, Trains And Boats And Planes, Always Something There To Remind Me, Wishin And Hopin’ purtroppo solo accennate, ed in particolare Walk On ByMagic Moments e la trascinante Beware Of The Bloba, incisa per la colonna sonora del film “The Blob” con Steve McQueen.
La band, come ci si aspettava, è solida e professionale, anche se un po’ “Las Vegas”. Sulle due cantanti di colore, Josie James e Donna Taylor, nulla da eccepire: recitano alla perfezione le loro parti in stile Dionne Warwick. Un po’ meno gradevole risulta invece il vocalist maschio, John Pagano, che ha quella tipica vocalità americana alla Michael Bolton che a tratti ci repelle, ma non è qui il caso di stare troppo a sottilizzare. La parte migliore del concerto è quella in cui sono presentati i motivi composti da Bacharach a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta per i “motion pictures”, come li chiama lui. C’è What’s New Pussycat (nota nella versione di Tom Jones), The Man Who Shot Liberty Valancea (di Pitney), The Look Of Love (di Dusty!) il celeberrimo tema di Arthur, l’ancor più famosa Raindrops Keep Falling On My Head che conoscono anche i sassi, cantata da Bacharach stesso. E arrivano i momenti più intensi dell’esibizione: Josie James che, chiamata da Bacharach sotto la luce dei riflettori, intona una Anyone Who Had A Heart così intensa e poderosa da non aver nulla da invidiare – anzi – alla Warwick dell’epoca d’oro. Ed è altrettanto fenomenale la versione di Alfie eseguita da Bacharach da solo, piano e voce. Della serie: struggente (e canticchiabile, il che non guasta, come nella filosofia del suo autore). Si torna al presente con due canzoni dall’album (“Painted From Memory” del ’98) inciso a quattro mani da Bacharach con Elvis Costello: I Still Have That Other Girl e God Give Me Strength, ma Pagano, per quanto sia dotato vocalmente, ci piace assai meno del Costello ammirato da queste parti circa 9 mesi fa. Ed evitiamo di commentare l’esecuzione di That’s What Friends Are For, sulla quale, come già detto sopra, siamo estremamente prevenuti.
Il bis è trionfale: Bacharach racconta che tempo fa aveva scritto una canzone di cui aveva dimenticato l’esistenza, e che gli hanno fatto notare come, alla luce degli avvenimenti dell’11 settembre, le liriche hanno ora assunto un nuovo significato. E attacca, per piano e voce, The Windows Of The World. Una canzone autunnale e bellissima, che abbiamo – come il 95 % dei pezzi di stasera – già sentito, ma non ci ricordiamo né come nè dove (e, tornati a casa, abbiamo controllato: sta su un disco dei Pretenders, cantata da Chrissie Hynde!). Poi è nuovamente, per l’entusiasmo del pubblico, Raindrops Keep Falling On My Head, accompagnato da ovazione e bagno di folla. Finché, sulla sigla What The World Needs Now Is Love, Mr. Bacharach ci abbandona definitivamente, gioviale com’era entrato, uno dei più grandi compositori di canzoni di tutti i tempi. Riguadagniamo faticosamente l’uscita in mezzo alla calca da sold-out, strafelici di aver fatto quella telefonata, e consapevoli che questo concerto non ci scivolerà addosso con facilità, e anzi, ci tornerà in mente tutte le volte che alla radio passeranno un brano di Bacharach. Cioè un’evenienza che capita, e capiterà, molto molto spesso.
Articolo del
10/02/2023 -
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