(segue dalla 4a Parte)
Bowie (finalmente) scarica i Tin Machine e si rivolge ai produttori dei suoi giorni di gloria. Il primo a essere contattato è Nile Rodgers, con cui collabora facendo uscire nell’aprile ‘93 “Black Tie White Noise” ispirato dal matrimonio con Iman. E’ un album dal sound superbo e modernissimo, black con alcune tinteggiature jazzate (vedi l’assolo di tromba di Lester Bowie degli Art Ensemble Of Chicago nel brano “Looking For Lester”) ma che rivela qualche blocco compositivo dell’autore, sottolineato dall’eccessivo numero di cover versions presenti. Forse le canzoni migliori Bowie le riserva alla colonna sonora del film “Buddha Of Suburbia” tratto dal libro di Hanif Kureishi, che esce a fine anno passando un po’ sotto silenzio e che denota anche un ritorno alla sperimentazione d’antan: “the great lost Bowie album”, lo chiamerà in seguito una parte della critica, probabilmente (anzi sicuramente) esagerando non poco.
Intanto c’è un mini-Bowie revival in atto: i Nirvana, nuovi divi del rock alternative, nel novembre 1994 pubblicano il loro album “Unplugged” comprendente una cover della bowiana “The Man Who Sold The World”, che diventa un inno della grunge generation; e in Inghilterra nello stesso periodo esplodono i Suede, che rispolverano le tipiche sonorità glam degli Spiders From Mars. Quando l’anno seguente si diffonde la voce che Bowie è tornato a collaborare con Brian Eno, le aspettative sono grandi; ma ancor più grande sarà la delusione nell’ascoltare il prodotto finale del rinnovato connubio, l’astruso concept “Outside.1” (uscito a settembre 1995) dove Bowie torna a cimentarsi con l’elettronica e con una sperimentazione dal taglio industrial in un tentativo mai convincente – e palesemente insincero – di restare rilevante e farsi amare (anche) dalle nuove generazioni. Brillanti canzoni - come “Hallo Spaceboy” - Bowie è ancora capace di scriverle. Ma vengono puntualmente massacrate dalla sua smania di restare sonicamente all’avanguardia, tendenza peraltro esasperata dal suo principale collaboratore di questo periodo: quel Reeves Gabrels unico superstite dal naufragio Tin Machine, fermamente convinto che sia cosa buona e giusta lanciare il guanto di sfida agli emergenti adrenalinici Nine Inch Nails e Smashing Pumpkins e a tutta la truppa della musica techno. L’”Outside Tour” riporta Bowie in Italia, ma stavolta non sono rose e fiori: il 9 luglio 1996 la data allo Stadio Olimpico di Roma è un flop totale, sia per il deludente riscontro al botteghino (appena 5.000 spettatori con larghi spazi vuoti) sia per il comportamento del cantante che dopo un’ora scarsa di concerto abbandona sdegnato la scena, decurtando di mezz’ora la prevista scaletta. E i fischi, neanche a dirlo, si sprecano.
Grazie (anche) al nefasto Gabrels, il successivo disco di Bowie è perfino peggiore del precedente: “Earthling”, prodotto dal tastierista dance Mark Plati e uscito nel febbraio 1997 – oltre ad avere una delle più orribili copertine della storia della musica – vede Bowie alle prese con il drum’n’bass e con la techno, oltre che con l’ormai solito sound alternative a lui poco consono. L’impressione – netta – è che Bowie abbia definitivamente smesso i panni dell’innovatore e si limiti a seguire la scia. Quanto di meno bowiano si possa fare al mondo.
Ma il fondo Bowie lo tocca nella primavera del 1998, quando si reca in Italia, in Garfagnana, per recitare la parte di un pistolero psicopatico nella pellicola “Il mio West” di Giovanni Veronesi a fianco del comico Leonardo Pieraccioni (!) e dell’esordiente attrice Alessia Marcuzzi (!!). Per quale motivo si faccia coinvolgere in un siffatto progetto è a tutt’oggi incomprensibile: forse unicamente per concedersi una vacanza in Toscana interamente spesata. Infatti, come prevedibile, neanche la presenza di un dignitoso Harvey Keitel nei panni del padre di Pieraccioni riesce a salvare dal naufragio quello che è uno dei peggiori spaghetti-western mai concepiti e realizzati, paesano e a tratti anche volgare, e con una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti. Da “Il mio West”, cine-panettone del Natale 1998, la reputazione di Bowie (mai credibile nella parte del villain per colpe da dividere anche con gli autori) esce in mille pezzi, con colui che 20 anni prima era l’algido, irraggiungibile Duca Bianco ridotto alla stregua di una macchietta. Buon per lui che il film non varca i confini italici (anche se ne esiste una versione inglese in DVD dal titolo “The Gunslinger’s Revenge”, di non facile reperibilità): con l’impietosa critica anglosassone sarebbero dolori, certo più di quanto siano stati nel 1986 dopo la sua stravagante interpretazione di Jareth re dei Goblin nella storia per bambini “Labyrynth”.
All’alba del 1999, Bowie appare in seria difficoltà, avendo peraltro dilapidato tutto l'immenso status acquisito come padrino, prima del glam negli anni '70 e poi di tutta la variegata scena post-punk negli '80. E invece “it’s not dark yet”, per prendere in prestito il titolo di una canzone di uno degli artisti che più aveva ispirato Bowie all’inizio della carriera, Bob Dylan.
(continua nella 6a parte)
Articolo del
22/06/2008 -
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