(segue dalla 5a Parte)
Alla fine degli anni ’90, stimolato dai paralleli sforzi di altri giganti dell’epoca d’oro della musica (Dylan con la "bootleg series", i Beatles con la “Anthology” e Neil Young con i fantomatici “Archives”), anche David Bowie decide di riordinare il suo vasto catalogo. Nel 1999 iniziano a uscire le nuove ristampe per la EMI (rimasterizzate da favola, con i testi delle canzoni ma senza bonus tracks a differenza delle precedenti edizioni Ryko) di tutti gli album dal 1969 fino ai giorni nostri, seguite man mano da edizioni rivisitate e corrette dei dischi live e da esaustive versioni deluxe di “Ziggy Stardust”, “Aladdin Sane”, “Diamond Dogs” e “Young Americans”. E’ a seguito di queste operazioni archivistiche volte a tramandare nella maniera più esatta la propria legacy che Bowie dà come l’impressione di tornare in sé, in una rinnovata consapevolezza dei suoi reali punti di forza. Nell’ottobre 1999 esce “...hours”, 23° album di studio di un Bowie 52enne che per la prima volta – sia nei testi che nella musica – pare davvero prendere atto del tempo che scivola via. Smessi i panni alternative che poco gli si confacevano, con “...hours” Bowie confeziona un album composto da belle canzoni di stampo cantautoriale quali “Thursday’s Child” e “If I’m Dreaming My Life”, non dissimili per atmosfera a quelle dell’epoca “Hunky Dory”. Ma sia ben chiaro, non è ancora un Bowie pienamente convincente: “...hours” è penalizzato sul piano sonico dall’incerta autoproduzione bowiana e per lunghi tratti dà l’idea di un Bowie ancora convalescente dopo una lunga malattia diagnosticabile come “giovanilismo in forma acuta”. Ma è (finalmente) un disco gradevole e dignitoso, e ha l’indubbio merito di innescare la dipartita dell’ormai decennale collaboratore di Bowie, Reeves Gabrels, che alla fine delle sessions dirà addio al suo mentore dichiarando di non condividerne la nuova direzione, giudicata “troppo soft”. Con “...hours” inoltre torna a livelli di minima decenza il look di David Bowie che, smessa la chioma bionda ingelatinata che nell’ultimo quinquennio lo aveva fatto rassomigliare al padre - più che al fratello maggiore - di Keith Flint dei Prodigy, si ripresenta in pubblico esibendo una fluente chioma castana non dissimile da quella della copertina di “Hunky Dory” (stendendo un velo pietoso sull’evidente lifting al volto e sulla – inedita – perfetta dentiera). Ed è così che lo rivedono i telespettatori italiani il 21 ottobre 1999, quando appare nella trasmissione di Adriano Celentano "Francamente me ne infischio". Nell'occasione, alle pedanti domande su guerra & pace, vita & morte, postegli dall'ex-"molleggiato", un infastidito Bowie replica sdegnato e stizzito, andando a un passo dalla rissa (verbale). Prima di un trionfale showcase di “...hours” all’Alcatraz di Milano il 4 dicembre, Bowie torna sull’episodio commentando in conferenza stampa: “Credo che (Celentano) sia un idiota. Alla fine sono riuscito a cantare la mia canzone, che era l'unica ragione della mia presenza allo show. Probabilmente non mi inviterà più. Peccato...”
Nonostante le polemiche, e le incertezze della critica (“...hours” è davvero il miglior disco bowiano dai tempi di “Scary Monsters” o un’operina senile di un artista stracotto da decenni?), Bowie in questo periodo continua ostinato a lavorare e a cercare una sua (nuova) strada. E - quasi per caso - la trova.
Tutto nasce da un progetto intitolato “Toy” per il quale Bowie inizia a incidere nuove versioni di propri brani poco noti quali “Conversation Piece” e “London Boys” con il concorso del suo antico produttore Tony Visconti. Il progetto per motivi non meglio chiariti abortisce, ma la collaborazione con Visconti nel frattempo prosegue e, dopo alcune ispirate sessions nella località montana di Shokan (nello stato di New York) dà luogo all’uscita nel giugno 2002 di un nuovo album: “Heathen”. E “Heathen” si rivela essere il folgorante colpo di coda che tutti aspettavano da tempo: è un’opera, infatti, profondamente bowiana, ma di un Bowie adulto, maturo, che torna a comporre canzoni in linea con la propria età anagrafica ma nel contempo non dimentico – grazie anche a un Tony Visconti che nell’occasione supera sé stesso - di quella ricerca sonora che è sempre stata il suo tratto caratteristico. “Heathen” è dark e atmosferico, ed è colmo di brani indimenticabili, a partire dal singolo “Slow Burn”, passando per la filastrocca “Slip Away”, per le magistrali cover di Frank Black dei Pixies “Cactus” e di Neil Young “I’ve Been Waiting For You” e per finire con la desolazione post-millenaria della title-track. Forse non raggiunge i vertici dei dischi dei golden years bowiani - a cui comunque può essere accostato senza remore - ma rappresenta una stupenda (e moderna) sintesi, se non di una intera carriera perlomeno di una certa fase iniziata da “Diamond Dogs” e chiusa in bellezza da “Scary Monsters”.
Per sfruttare il buon momento, Bowie torna in tour (il 15 luglio 2002 è al Summer Festival di Lucca ma lo vanno a vedere solo 9.000 paganti) e subito dopo inizia a incidere un nuovo album. Ancora con Tony Visconti, ancora a New York, in vista (si dice) di una seconda trilogia, stavolta “newyorkese”. “Reality” vede la luce nel settembre 2003, ma la magia di “Heathen” sembra essersi dissolta. E’ un disco banale e di routine; è poco ispirato sul piano compositivo (solo il singolo “New Killer Star” si eleva dalla mediocrità); è sovraprodotto come un “Never Let Me Down” qualsiasi. E per i ringalluzziti fanatici bowiani “Reality” è l’ennesima delusione. Anche se stavolta a parziale scusante può essere addotto anche un fattore fisiologico: un disco del livello di “Heathen”, a un artista non di primo pelo come Bowie (che nel 2002 aveva 55 anni e non era certo al top delle energie creative) può riuscire al massimo una volta sola, come possono testimoniare “Time Out Of Mind” di un 56enne Bob Dylan e “American Recordings” di un 62enne Johnny Cash, solo per citare due crepuscolari capolavori che non sono mai stati veramente bissati dai due autori.
Amante com’è delle tecnologie e refrattario alle convenzioni, Bowie lancia “Reality” e relativo tour mondiale a suo modo, eseguendo i brani del disco in diretta via satellite dai Riverside Studios di Londra nel corso di uno spettacolo visto anche in Italia, a Roma all'UCI Cinema Marconi e a Milano, al Multiplex Arcadia di Melzo. L’”A Reality Tour” parte da Copenhagen il 7 ottobre 2003, passa il 23 ottobre per il Forum di Assago (una bella serata stavolta, con 13.000 spettatori ad assistere a due ore di concerto) e va avanti per ben altri 7 mesi. Fino al fatidico 25 giugno 2004, quando sul palco dell’Hurricane Festival a Scheeßel (Germania) il 57enne Bowie avverte un improvviso, lancinante dolore al petto...
(continua nella 7a parte)
Articolo del
28/06/2008 -
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