Dove risiede la grandezza di un complesso suggestivo come quello dei Mamavegas? Di sicuro nell’umiltà, nel desiderio di fare e produrre ciò che gli riesce meglio, senza eccessive pretese, ma con la voglia di sfornare puntualmente un progetto discografico che sia all’altezza e in linea con le aspettative di chi ha cominciato a seguirli fin dal bellissimo The Way To St. Ruiz del 2009.
Per loro ogni disco rappresenta una sfida importante, uno step da eseguire e sostenere con lucidità, entusiasmo. Del resto basta osservare quanto, dal primo Ep in poi, il loro stile sia maturato a vista d’occhio, accumulando e inglobando sempre più contaminazioni mai forzate, tantomeno inopportune, bensì naturali e pregevoli. Merito, questo, della notevole sensibilità dei sei componenti della band, gente che proviene da diversissime esperienze artistiche e che ha fatto della sperimentazione, della costante esplorazione sonora, la sua prerogativa principale, gente che, prima di tutto, sa suonare per davvero. Lo testimonia il fatto stesso che almeno un paio di loro siano degli ex jazzisti. È chiaro dunque il fatto che quando alla base di una band del genere ci sono delle qualità tecniche considerevoli, dei grandi stimoli artistici, un’ottima inventiva ed un discreto affiatamento i risultati non possono che essere entusiasmanti. E la riprova, in tal senso, è insita nel nuovo disco del gruppo capitolino, pubblicato, come già accaduto in passato per le ultime due produzioni, dalla 42 Records. Hymn For The Bad Things, acquistabile dallo scorso 16 novembre e distribuito in Europa, a partire da febbraio 2013, da Rough Trade, è dunque il primo album vero e proprio rilasciato dall’eclettica band. Giunge a quasi due anni di distanza del precedente Icon Land, altro autentico gioiellino. I Mamavegas lo hanno registrato all'Igloo Audio Factory di Budrio e al White Lodge Studio di Roma. Masterizzato da Andrea Suriani all'Alpha Dept. di Bologna, Hymn For The Bad Things si è infine avvalso del missaggio e della produzione artistica di Giacomo Fiorenza.
Cosa colpisce in particolar modo di questo lavoro? Sicuramente il sound globale, alquanto affascinante e curatissimo in ogni singolo fraseggio, sia nei passaggi maggiormente raffinati, sia negli episodi in cui predomina l’elettricità. Le sonorità risultano contemporanee e strizzano l’occhio al miglior indie-folk angloamericano odierno (Midlake, Bon Iver, Fleet Foxes ed Arcade Fire in primis) oltre che ad un post rock delicato, a tratti minimalista. Visto che i Mamavegas non si fanno mancare proprio nulla, ecco che le tiepide venature pop risultano puntualmente dietro all’angolo. E l’elettronica? C’è anche quella, seppur in misura minore e, di conseguenza, mai del tutto invadente. Dunque è proprio questo continuo oscillare tra dimensioni elettriche ed (elettro)acustiche a dare quel qualcosa in più al disco, in cui sono poi gli arrangiamenti a svettare per forza di cose. Geniali, ad esempio, i fiati malinconici presenti in Sooner Or Later (Time) e Self-Portrait In Four Colours (Happiness). Belle anche le convivenze spesso inaspettate tra sintetizzatori, archi e chitarre. Ma, più in generale, si può affermare che qualsiasi variazione, qualsiasi sviluppo è eseguito attraverso espedienti e soluzioni mai banali e prevedibili: ulteriore conferma, questa, delle numerosissime risorse musicali del sestetto capitolino. In tutto ciò, nonostante l’inarrestabile e costante sperimentalismo, il gruppo riesce comunque a proporre delle canzoni semplicemente graziose, orecchiabili ed accessibili a chiunque. Canzoni che entrano subito in testa, come nel caso di Solid Land (Nature) e di Black Five (Trust). Canzoni, infine, dotate di testi profondi e ispirati non soltanto a livello di liriche, ma anche da un punto di vista prettamente tematico.
Gli undici pezzi in scaletta sono inoltre legati da un unico concept. L’idea è in pratica quella di guardare a temi universalmente riconosciuti come positivi (tra cui l’amore, il successo, la bellezza, la speranza), proponendoli da prospettive spesso inusuali. Insomma: una lente al negativo che ha l’intento di esorcizzare le paure insite in ciascuna di queste esperienze. Se Tales From 1946 (Love) ruota intorno agli aspetti ossessivi e totalizzanti di un amore, la già citata Black Fire (Trust) tratta invece il tema della fiducia riposta nel prossimo che, messa alla prova dai grandi cambiamenti della vita, brucia in un fuoco scuro e svanisce. Attenzione poi a Mean And Proud (Beauty), primo singolo ufficiale, dove si racconta il conflitto di un corpo che cresce perdendo inevitabilmente la sua innocenza.
Per chiudere: un disco più che valido, da rimediare al più presto e da contemplare a fondo per coglierne tutta la poesia, tutto l’impegno e la dedizione che i Mamavegas ci hanno messo dentro nel corso della stesura e della finalizzazione.
Articolo del
29/11/2012 -
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