Freschezza, consapevolezza, determinazione, sicurezza e quel tocco di timidezza: sono le prime cose che penso quando Paolo Preite, con tanto di chitarra sulle spalle, varca le porte di Visiva - La Città dell’Immagine, la open-factory che ci ha ospitati per l’interview. Paradossalmente queste sensazioni si trasformeranno in conferme. Il resto è storia di confronti, scherzi, approfondimenti, curiosità e acustic live di canzoni in anteprima. Non c’è bisogno di spicce prefazioni: sappiate solo che il ventottenne songwriter (ci tiene a precisarlo) romano è alle prese con l’imminente pubblicazione del primo lavoro “Don’t Stop Dreaming”, prodotto non meno che dal braccio destro di Lou Reed, Fernando Saunders e bacchettato a dovere da uno dei batteristi più richiesti al mondo, Kenny Aronoff. I loro nomi risuonano ogniqualvolta che può aggrapparvisi, specie nei suoi occhi. C’è tanta umiltà ma anche picchi di sano vanto (cari lettori, ha registrato col microfono maneggiato da Iggy Pop e Suzanne Vega). Ma soprattutto infinita impazienza, voglia sconfinata di interrompere l’attesa e irrompere finalmente nel (suo) mondo musica. Vi sarà svelato tutto nelle parole sottostanti. Anzi, sarà Preite a svelarsi per noi. E com’è il mio solito rimarcare con gli emergenti che emergeranno: segnatevi questo nome. Ne sentirete parlare.
Componi da quando hai 15 anni, sei autodidatta e fai uso esclusivo dell’inglese. Parlami degli esordi e della scelta di essere un “songwriter” più che un cantautore.
Fin da bambino sono sempre stato vicino al mondo della musica. A quindici anni, non smettendo ad imparare a suonare uno strumento, ho scritto il mio primo brano con una bella struttura e da lì mi son detto: “forse questa può essere la strada giusta”. Ho continuato a migliorarmi e a suonare con gente che studia musica. Sì, sono autodidatta, ma ho sempre avuto contatti con professionisti del settore cercando di coglierne il meglio. Quanto alla lingua, ho sempre avuto una spropositata passione per l’inglese. Mi esce molto naturale scrivere testi in inglese, seppur ci sia un grande lavoro sotto.
Alberto Ferrari dei Verdena mette in pratica una tecnica del tutto singolare: scrive il testo in inglese e lo traduce successivamente in italiano con l’intento di colorirlo con un sound dalle reminiscenze pseudo-inglesi. Il “verdenianesimo” di segno opposto ti appartiene o vai direttamente al sodo?
Vado direttamente sull’inglese. La traduzione non rende, non porta all’esatto significato che vorresti dare al pezzo. Pensa a Battisti: i suoi testi venivano scritti da Mogol, ma quando egli stesso scriveva le canzoni, metteva un fantomatico inglese sui pezzi (secondo me tutti molto british) che venivano poi sistemati da Mogol. Ogni “cantautore” ha un suo modo di comporre.
Parli del british eppure quando penso al tuo modus, mi viene subito in mente la scena americana. C’è molto Cohen (seppur canadese), Springsteen, quel tocco di Howe Gelb e tanto Dylan. Smentiscimi o non, e dimmi quali sono gli altri artisti (oltre a questi, spero) ai quali ti ispiri.
Penso che in ventotto anni ne ascolti tanta, tanta ma veramente tanta di musica! Sicuramente ascolto Bob Dylan, Bruce Springsteen, Al Green, il soul americano di Bobby Womack e anche i classici del rock inglese come i Beatles e i Rolling Stones.
Del resto suoni l’armonica, alla stregua del vero richiamo al roots rock…
Cerco di essere molto naturale e spontaneo nella composizione. Quello che vorrei dare è freschezza più che un sound americano. So di avere un background italiano che mi influenza: non potrei mai suonare come un cantautore americano. La mia scelta è diversa: con la consapevolezza di essere italiano, attingo all’inglese come lingua veicolare, come mezzo di comunicazione con lo scopo di dare un senso e significato universali alle mie canzoni.
Chiederti quanto sia gratificante collaborare con Fernando Saunders e Kenny Aronoff è banale, immagino già la risposta. Come hai fatto ad arrivare a loro? Questa è la domanda che sorge spontanea.
Ho incontrato Fernando circa cinque anni fa al Big Mama, in occasione della sua data solista e dopo che aveva finito il tour con Lou Reed a Roma. Dopo il suo show, mi sono avvicinato a lui e abbiamo cominciato a parlare di musica. Persona umilissima. Gli ho chiesto semplicemente se avesse voluto fare una collaborazione con me. E’ partito tutto per gioco: gli ho mandato tonnellate di materiale sull’e-mail (70/80 pezzi!) e da lì abbiamo definito il progetto di produzione. Di tutti questi brani ne abbiamo scelti otto, iniziando a lavorarci su. E’ stato un processo molto singolare, molto originale! E’ durato quattro anni nei quali, stando a contatto con Fernando e Kenny, sono cresciuto sia come artista che come persona: è un qualcosa che ti migliora a tal punto che i pezzi che avevamo scelto all’inizio non andavano di pari passo con quello che nel frattempo ero diventato io! Abbiamo ricreato, riproposto altri pezzi, altre mie nuove composizioni: per questo ci sta volendo così tanto per concludere l’album…
Come mi dicevi prima, anche la morte di Lou Reed ha ostacolato i vostri piani…
Sì, essendo stato un lungo compagno musicale di Lou…
Ha fatto anche un live, “The Final Memorial Tribute for Lou Reed”, a Toronto, il primo marzo.
Sei informata!
Verifico le fonti. ndr: Parte una risata molto “naturale” e “spontanea”, per dirla con Preite
Sì, hanno fatto un live a Toronto con la band classica di Lou Reed dopo i Velvet Underground insieme a Mike Rathke e Tony Smith alla batteria.
La tua booking agency è la Grinding Halt. Scelta seria.
Oggi come oggi quel che conta davvero è un grande prodotto e una buona booking agency. Le copie materiali le vendi ormai solo dopo i concerti (vuoi per il momento emozionale) ed è per questo che sono sicuro che riusciremo a fare qualcosa di buono qui in Italia. Ma ho anche altre offerte all’estero.
A proposito dell’estero: dopo dei live a Roma (Circolo degli Artisti; Giardino del Belvedere), a settembre approdi in Danimarca per un tour. Come mai nel paese più felice della Terra?
Ho conosciuto un musicista danese che si è innamorato dei miei brani e insieme abbiamo deciso di organizzare un piccolo tour in Danimarca. Con una band danese abbiamo fatto cinque date: è andato splendidamente, la reazione del pubblico è stata straordinaria ed è stato un bel banco di prova, essendo il mio primo live all’estero. Volevo vedere se effettivamente le mie canzoni (venti/venticinque pezzi) funzionavano. C’è stata una grande risposta e ne sono stato molto contento.
Entriamo in merito al repertorio. “I Wanna Hold Your Hands”: scelta intenzionale o non, si pensa subito ai Beatles. Come probabilmente saprai (fermo restando la dicitura al singolare), oltre ad essere il singolo più venduto degli stessi (vero concept single), è un prodotto musicale autonomo, ma soprattutto il pezzo che ha spianato loro la strada verso il mercato americano. Ritorno sempre sullo stesso punto: ci sono liaisons negli intenti?
No, non c’è nessun legame. Poi come ben saprai la frase ha molti significati. E’ solo una coincidenza.
“The King of All Winds”: una ballad nel vero senso della parola. Parlacene.
E’ un brano che ho scritto in quindici minuti. Quello che voglio dare nei miei testi è lasciare la libera interpretazione, senza svelarla del tutto. Quello di cui parla The King Of All Winds sono le passioni.
“Mary”, una specie di “folk-lullaby” in chiave natalizia. Molto peculiare l’uso del violino.
Il violino lo suona un bravissimo musicista, amico di Fernando, Peter Krajniak: gli ha dato quel tocco gipsy- folk essendo slovacco. La storia di Mary è legata ad una mia amica che tempo fa mi confidò di avere problemi di insonnia. Il giorno dopo ho scritto questo testo come lullaby, dicendole: “Questa è per te, così riesci a dormire la notte”.
Infine “How I Feel”, più blues, con piccole iniezioni “springsteeniane”.
How I Feel è stata scritto parecchi anni fa, Springsteen neanche lo conoscevo! E’ uno dei miei primi brani, ma non farà parte dell’album.
Svelaci quali ne faranno parte allora. I Wanna Hold Your Hands (con Kenny), Mary, The King Of All Winds con un arrangiamento nuovo e full band che produrrà Fernando. Registreremo a Ostrava in Repubblica Ceca nel nuovo studio di Saunders. Qualche brano è stato registrato anche a Roma con pezzi mandati da Kenny da Los Angeles. L’ho incontrato dopo un concerto che ha fatto a Roma con il chitarrista dei Toto e dopo lo show (sempre!) gli ho proposto di collaborare con me e Fernando per un pezzo. E’ stato molto entusiasta perché già seguiva la mia musica e così abbiamo iniziato la collaborazione su I Wanna Hold Your Hands, dove Kenny ha fatto delle percussioni stupende. Pensa, per fare il video è successa una baraonda visto che Kenny non aveva più tour in Europa e quindi non avevo modo di incontrarlo di persona. Avendo fatto una data in Canada, ho ingaggiato una mia amica che fa ricerca lì, a filmarlo mentre suonava in cuffia il pezzo di I Wanna. Tramite questi contatti bilaterali ho organizzato il tutto da qui!
L’album si chiamerà “Don’t Stop Dreaming”. Salvo complicazioni già enunciate, per quando è prevista l’uscita?
L’uscita sarà direttamente proporzionale a quello che farà Fernando! Mi ha (r)assicurato che a brevissimo ce l’avremo, sta a dire, a maggio.
Don’t Stop Dreaming: potrei chiederti qual è il tuo sogno all’indomani dell’uscita dell’album. Farò l’opposto: Cosa non vuoi che succeda dopo la pubblicazione dello stesso?
Un flop?
Ci sarà un tour promozionale presumo.
Sì, in Italia e all’estero. Mi hanno contattato gli Stati Uniti, la Germania, la Svezia, l’ex Jugoslavia. Parecchie proposte. Vedremo.
Una domanda che vuoi io ti ponga. ndr: A (mia) grande sorpresa ri-parte una risata con la continua ripetizione di “non so”. Alla fine, l’indecisione viene sconfitta
E’ stato complicato fare questo album?
E’ stato complicato fare questo album?
E’ stato molto complicato, qualcosa di quasi impossibile. Però ci siamo quasi riusciti, penso.
Come hai detto all’inizio, sei maturato in questi quattro anni, quindi se al posto di tutte queste tortuose curve avessi percosso una strada retta e spianata, il risultato sarebbe stato meno soddisfacente.
Hai ragione, è un’ottima chiave di lettura. Quando ho iniziato a registrare l’album, forse c’era un po’ di talento, ma ciò non basta(va). Ne parlavo spesso con Kenny circa questa cosa: pensa egli, tutt’oggi, suona la batteria dieci ore al giorno. Alla fine, su cosa è basato il successo? Sul duro lavoro. Per essere un songwriter devi essere un buon musicista, devi avere una padronanza dello strumento, devi saper relazionarti con le persone, devi saper stare on stage, devi avere una certa idea di musica, un tuo sound, no? E’ tutto un processo molto lungo. Secondo me se vuoi creare una carriera nel tempo, devi solo che lavorare in questo modo.
Capisco che vuoi occuparti solo del mondo musica nonostante una fresca laurea in Relazioni Internazionali. Sorge spontanea una considerazione prettamente personale: una cosa non esclude l’altra e sta a noi trovare la conciliante chiave di lettura, data la flessibilità ed elasticità degli studi svolti.
Non saremmo le persone che siamo. L’istruzione, la conoscenza ti aiuta. Tutto aiuta. La vita non è solo bianco o nero, ci sono milioni di sfumature. Ad esempio, quando ho scritto I Wanna Hold Your Hands, ero immerso nello studio di Geopolitica, del resto durante il periodo delle primavere arabe. Da lì è scattato l’input con richiami nel testo alla Dichiarazione Universale Dei Diritti Dell’Uomo.
Intuisco sempre più quanto l’intento della canzone in questione si discosti da una visione sentimentalmente beatlesiana.
In essa volevo legare il mio sogno di diventare un musicista professionista, di fare della mia musica la mia vita al sogno di queste popolazioni di raggiungere la libertà. Trattasi di un messaggio universale: stringervi le mani, darvi coraggio.
Di coraggio ne hai da vendere, Uomo dedito alla musica. Con grande vigore, Extra! Music Magazine ti stringe la mano. Grazie.
(La foto di Paolo Preite assieme alla nostra redattrice Mirela è di @Simone Pichierri)
Articolo del
14/03/2014 -
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