La tradizione jazzisitica che si sposa con la musica contemporanea e con l’elettronica. Clinamen, primo disco del sassofonista Pietro Santangelo nasconde al suo interno queste caratteristiche presentandosi come un disco granitico ma allo stesso tempo dalla mille sfaccettature.
Merito del talento del leader di questo trio che è completato Vincenzo Lamagna al Contrabasso e Salvatore Rainone alla batteria, entrambi provenienti dalla prolifica esperienza con gli Slivovitz, come lo stesso Santangelo.
Il leader del gruppo ci ha raccontato questa esperienza che, dopo diverso tempo, ha portato alla nascita di un disco interessante quanto variegato.
Pietro, per cominciare l’intervista partiamo dal nome del progetto: Clinamen è infatti un concetto tratto dalla filosofia Epicurea. Ci vuoi spiegare perché lo hai scelto come titolo? Ho scelto questo titolo perché è una bella parola latina con un bellissimo significato. Il Clinamen pone la libertà di scelta al livello più basso dell’interazione fra le particelle elementari, trovo che questo sia molto vicino a quello che si fa quando si improvvisa assieme
In questo disco ci sono tanti spunti che partono dal jazz passando per tante altre cose come la musica etnica, quella di stampo nordeuropeo, eccetera. Ci vuoi raccontare la storia di questo progetto? Suono in trio già da diversi anni con Vincenzo Lamagna e Salvatore Rainone, che, oltre ad essere due bravissimi musicisti, sono amici e fidatissimi compagni presenti nel progetto Slivovitz; 4 anni fa ho cominciato a scrivere il lavoro per questo disco. Ci ho messo circa due anni perché volevo che fosse qualcosa di ben digerito da tutti e tre, ed avevo voglia di fare un disco che avesse un’uniformità, che fosse coerente dall’inizio alla fine, che avesse un “suono”. L’ho registrato due anni dopo in uno studio bellissimo (la Phonotype di Napoli) aiutato da Fabrizio Piccolo e Gianni Ruggiero
Parliamo proprio del disco ora. Ci vuoi descrivere lo stile o gli stili che possiamo trovare al suo interno? Stilisticamente il trio lavora intorno al jazz modale, cercando di accentuarne la parentela con tradizioni musicali popolari non necessariamente americane. Modalità come spunto compositivo ed improvvisativo, ma soprattutto una marcata attenzione verso il lato più ritmico dell’interplay
Un trio senza pianoforte è sempre una formazione abbastanza particolare. Quali sono le potenzialità espressive in una band costruita in questo modo soprattutto per te che suoni il sassofono? Mi è piaciuto aggiungere l’elettronica per contraddistinguere il suono generale del disco, e mi interessa sviluppare le possibilità improvvisative anche attorno a questa dimensione. Per il resto ho cercato di sfruttare le capacità di Tore ed Enzo per immaginare uno “spazio,” in quello spazio dove cerchiamo di essere “liberi”. Le potenzialità sono infinite anche perché timbricamente percussioni, contrabbasso e sassofoni possono essere spinti molto in là. Diciamo che non si è proceduto secondo un piano prestabilito
Come ti muovi invece quando componi un brano nuovo? Hai sempre una procedura standard, oppure varia a seconda del momento? A volte parto dal sassofono, a volte dal piano, a volte dal ritmo. Penso ad una suggestione e cerco di seguirla. Diciamo che la parte più importante della scrittura dei pezzi sta nel connettere il tema al contrabbasso cercando quelle relazioni intervallari che delineano distintamente l’armonia o la modalità soggiacente alle due voci
Per quanto riguarda i musicisti di riferimento invece: quali sono quelli che per te nel corso della tua vista sono stati fondamentali? In ambito jazzistico diciamo classico chiaramente Coltrane, Shorter e Yusef Lateef; da un punto di vista più concettuale piuttosto che marcatamente timbrico anche Henderson e Lloyd ma forse. Guardando ad altri ambiti (free e avanguardie) mi vengono in mente Steve Lacy, Ornette Coleman e John Zorn, ed in particolare il loro utilizzo di situazioni prive di strumenti armonici. Da adolescente ho ascoltato tantissimo blues e tantissimo rock (sia britannico che americano), idolatro Frank Zappa, la sua ironia, il suo modo di lavorare le melodie ed il suo approccio totale alla dimensione musicale. Dopo la laurea ho studiato Musica Elettronica a Santa Cecilia con Giorgio Nottoli ed attualmente studio a Napoli (ed ho avuto anche l’onore di collaborare) con Elio Martusciello, due figure a cui devo molto. La cosa fondamentale che ho capito nel corso degli anni è che bisogna essere onnivori: credo fermamente che una mente appassionata di musica debba coltivare con un altissimo livello di biodiversità i propri gusti. La monocultura è sinonimo di entropia
Parliamo anche della città in cui vivi e dove sei nato e cresciuto: che aria si respira a Napoli in ambito jazzistico / musicale? E soprattutto ci sono club dove poter suonare? Napoli non è un porto felice per chi fa jazz, o meglio per chi vuole praticarlo in un locale pubblico. Il fermento vero negli ultimi anni in città (l’hinterland conserva oasi felici ma spesso un po’ ferme a stilemi classici) lo si trova nei centri occupati ed autogestiti. Li è possibile vedere all’opera una crescente fetta di musicisti più attratti da discipline improvvisative estreme e sperimentali. Personalmente trovo molto stimolante questo tipo di scena. Se parliamo di locali che offrono una proposta jazzistica interessante siamo indietro. Ci vorrebbe molta più attenzione alla musica da parte del pubblico, e meno attenzione ai menù…
Chiudiamo con una proiezione verso il futuro: Prossimi appuntamenti del trio? Aggiornateci sui prossimi live, insomma… Presenteremo il disco a Roma il 7 Aprile al teatro Cantiere
Grazie e in bocca al lupo! Crepi e grazie a voi !
Articolo del
16/02/2018 -
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