Si spengono le luci del palazzetto, sul palco si intravedono le sagome dei musicisti della band, poi un dubbio, quasi uno sgomento. Ma è possibile? Quell’omino laggiù, vestito con una divisa completamente nera ornata da dei cerchietti quasi metallici lungo le braccia e lungo le gambe,con un collo “alla coreana”, che caracolla, raggiungendo il palco passando alle spalle del palchetto sul quale è montata la batteria, evitando accuratamente il centro del proscenio, quella sagoma sottile e distratta è uno dei più celebri musicisti pop del ‘900, capace di sconvolgere la storia della musica popolare del secolo scorso attraverso il folk, il blues, il rock, sempre con lo stesso inossidabile e disarmante carisma?? Ebbene si. Chi lo conosce alla fine non poteva aspettarsi certo un ingresso da star, una passerella da divo, con luci e fanfare. Il suo è un ingresso quasi di soppiatto, come un membro qualunque della band. Lui se ne va tranquillo al suo posto, che da qualche tempo si è spostato dietro un piano elettrico. E quel piano suonerà per tutto il concerto, sciorinando ogni tanto dei generosi quanto spartani colpi di una calorosa armonica a bocca. Chi se lo aspettava con la chitarra in mano al centro del palco è sorpreso. Il mago Dylan si re-inventa in tutte le maniere, e adesso è diventato un pianista blues molto efficace. I primi assaggi arrivano da dischi non certo recentissimi: "To Be Alone With You", del ’69, l’album era "Nashville Skyline", e "It’s All Over Now Baby Blue", da "Bringing It All Back Home" del ’65. Inutile dirlo: impossibile riconoscerle dai primi accordi. Dylan come al solito gioca coi suoi pezzi, li dilata, li accorcia, ne modifica le melodie e le armonie. ------------ La band ha corpo e intesa: la batteria e le percussioni di Gorge Racile, da tempo alla corte di Bob, il nuovo chitarrista Freddy Koella dallo stile molto rock and roll alla Chuck Berry, l’eclettico Larry Campbell, che alterna chitarra elettrica, slide e cittern, il mandolino di origini irlandesi, e il solido basso (e contrabbasso) di Tony Garnier. Il suono della band è tosto: un pugno allo stomaco quando suona rock and roll e blues, ruvido e pastoso quando si concede alle chitarre acustiche e slide, al contrabbasso, e alle spatole sulla batteria. La voce di Bob è rauca, sporca, a tratti addirittura smodata e sguaiata, eppure ricca. Con "Cry A While" Dylan comincia a pescare e a rifare dal suo ultimo lodatissimo disco in studio, datato 2001, "Love And Theft". Ma subito dopo sferra tre colpi da maestro dai suoi brani storici: "The Lonesome Death Of Hattie Carroll", "It’s All Right Ma (I’m only Bleeding)" e "Mr. Tambourine Man". E qui entra in scena il Dylan poeta, grande songwriter: storie raccontate con la chitarra tra i denti e l’armonica a bocca nei polmoni. Il dubbio ci riassale: c’è una strana atmosfera che aleggia nella sala: ma siamo davvero al concerto di Bob Dylan? O è un ottimo gruppo blues che sta suonando? La risposta è in realtà una domanda: come diavolo fa questo indomito menestrello, che da 17 anni è costantemente in giro col suo “Never ending tour” a decostruire le sue canzoni, e ogni volta a rimetterne insieme i pezzi in maniera differente? Non c’è niente da fare, è come se, per non correre il rischio di inutili celebrazioni, Dylan preferisse non celebrare niente e nessuno. ------------ Sono proprio i testi a venirci incontro e rendere riconoscibili le rivisitazioni dei brani. A tratti si ha l’impressione che le sequenze di accordi degli originali siano ancora presenti nelle nuove versioni, ma vadano cercati con cura e attenzione, perché son stati nascosti negli intrecci e nei nuovi impasti sonori. La scaletta macina ancora 3 brani da Love and theft: la splendida "Tweedle Dee & Tweedle Dum", "Honest With Me" e "Summer Days", mentre tra i classici non mancano "Highway 61 Revisited", infuocatissima, con le due chitarre sul palco in grande spolvero e "Don’t Think Twice, It’s All Right", manco a dirlo: irriconoscibile. Dylan è sempre dietro il piano, dà quasi le spalle al pubblico, è uno della band, nessuna luce particolare, nessun privilegio. Spesso, alla fine di un brano, si sposta verso la batteria ma, attenzione, senza mai cercare lo sguardo affamato dai fans. Le poche volte che incrocia la folla, lo fa senza indugiare nell’applauso. Non è una posa snob, ma l’istinto che da tempo, forse da sempre, gli consiglia di evitare i fronzoli. E poco importa se al pubblico resta spesso la sensazione di non riuscire a penetrare nel profondo del proprio idolo. Un fan di una star odierna, invece lo pretende. Se non ti concedi totalmente, non puoi farcela. Dylan, figlio di un altra generazione, e forte di un grande carisma allergico ai trionfi, l’ha fatto. Non chiedetegli come. Tanto non ve lo dirà. O forse l’ha già detto con le sue canzoni. Intanto dopo pochi minuti di pausa è il momento dei bis, e di "Like A Rolling Stone", con la platea e le tribune che vorrebbero intonare il ritornello a squarciagola, ma Dylan perfido e geniale, strozza il coro di migliaia di ugole, ridisegnando la canzone, cambiando il ritornello. Il pubblico che conosce il mago Dylan, capisce e lo perdona. E’ il momento di rivoltare anche "All Along The Watchtower". Poi il menestrello, prima di abbandonare il suo piano, presenta la band (e sono le prime parole che rivolge al pubblico) e si ritira, confuso tra i musicisti della band.
Articolo del
10/11/2003 -
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