Lo spunto per tornare a parlare in modo sistematico di David Bowie è che da qualche tempo sembra esserci nell’aria (“...something in the air, something in my eye” per usare le sue parole) una sorta di consapevolezza – per così dire – “di ritorno”, della grandezza dell’artista etichettato di volta in volta come il Camaleonte del Pop, l’Uomo Caduto sulla Terra o semplicemente - da una delle sue più indimenticabili incarnazioni - come “il Duca Bianco”, dopo circa un ventennio in cui era stato (assurdamente) svalutato. Perché Bowie è “semplicemente” una delle figure fondamentali della musica moderna. Con buona pace del chitarrista degli Stones Keith Richards – che l’ha di recente bollato come “null’altro che posa” – Bowie è stato un Grande Innovatore, per lungo tempo all’avanguardia nell’indicare inedite traiettorie che facessero evadere il Pop (Rock?) dal ripetitivo cul de sac in cui si era andato a cacciare negli anni ’70. Bowie è stato la prima rockstar postmoderna, votato a scovare sonorità sotterranee da rielaborare per ottenere un qualcosa di radicalmente nuovo digeribile (seppur con qualche ritardo) dal mainstream. Bowie ha inventato di sana pianta lo spettacolo rock “teatrale”. E’ stato l’artista di maggior spicco del glam-rock. E’ arrivato anni luce prima degli altri al white funk. E ha scoperto (con la complicità di Brian Eno) le potenzialità dell’elettronica “krauta” applicata al Pop, ponendo le basi di tutta la new wave e del post-punk. Così che, quando (molti) anni più tardi, sono arrivati sulla scena gli Style Council, i Suede, i Prodigy e i Klaxons, è venuto naturale pensare che senza il genio di Bowie tutti questi gruppi non sarebbero esistiti o avrebbero suonato una musica completamente diversa. E poi, soprattutto, con la forza del proprio esempio Bowie ha propagandato il concetto che l’artista Pop deve necessariamente cambiare ed evolversi; con il rischio, magari, di fallire miseramente, ma nutrendo sempre l’ambizione di cercare di realizzare disco dopo disco – e concerto dopo concerto - qualcosa che aneli all’originalità differenziandosi da quanto fatto in passato: Bowie, nel suo periodo realmente “bowiano” - che personalmente circoscrivo tra il 1966 e il 1987 - non è MAI stato fermo a cullarsi sugli allori, ma ha sempre teso a sconcertare e a stupire il proprio pubblico. E oggi si può dire che la missione di Bowie è perfettamente compiuta. Aldilà delle sue teatrali incarnazioni (il Mod, l’Hippie Festivaliero, lo Spaceman androgino, il Duca Bianco caduto sulla terra, il Pierrot neo-romantico, il Crooner dal biondo ciuffo) - che hanno assunto una valenza iconica nella storia del costume del XX secolo e non solo – Bowie può vantare un catalogo discografico che ha dell’unico sia per varietà che per qualità. Peraltro Bowie ha al proprio attivo almeno 11 album di quelli che è uso definire “essenziali” (partendo da “The Man Who Sold The World” del 1970 per fermarsi a “Scary Monsters” del 1980, escludendo la raccolta di covers “Pin Ups” del 1973 e – a malincuore - “Lodger” del 1979); se a spanne (e in linea con le opinioni correnti della critica) si considera che Bob Dylan e i Beatles di Long Playing epocali ne hanno realizzati una dozzina a testa e che i Rolling Stones arrivano a malapena alle 10 unità, ne consegue che il posto di David Bowie nel pantheon dei grandi di tutti i tempi dovrebbe essere bello assicurato.
Ma non è sempre stato così. Quello di Bowie verso l’immortalità (artistica) è stato, in realtà, un lungo viaggio, e con svariati intoppi durante il percorso. Originario di Bromley vicino Londra, dove è nato nel 1947, David Robert Jones all’età di 15 anni subisce un infortunio all’occhio sinistro, la cui pupilla rimarrà permanentemente dilatata, dando l’idea che il ragazzo abbia due iridi di colore diverso, ciò che in seguito conferirà all’artista un’inquietante aura quasi da alieno. Colpito da un’apparizione di Little Richard alla TV, David inizia ad appassionarsi alla musica; impara a suonare il sax e poi la chitarra; forma i primi gruppi e si immerge nella scena Mod della Londra primi anni ’60; pubblica come David Jones con i King Bees, i Manish Boys e Lower Third alcuni singoli in stile rhythm’n’blues, tutti fallimentari. Nel 1966, con il nuovo nome d’arte David Bowie (scelto per non confondersi con il cantante dei Monkees Davy Jones), realizza il primo 45 giri degno di nota, “Can’t Help Thinking About Me”, deludente anch’esso sul piano commerciale, ma che rivela - per la prima volta - che il ragazzo ha una gran bella e particolare voce e che sa come si scrive una canzone. Una prima sterzata avviene nella seconda metà del ’66: Bowie, messo sotto contratto dalla Decca/Deram, si lancia sul pop orchestrale, ispirato in vario modo da Syd Barrett dei Pink Floyd, da Scott Walker dei Walker Brothers, da Ray Davies dei Kinks e dal cantante/attore Anthony Newley (da cui copia alcuni manierismi da crooner e il forte accento cockney). In questo periodo produce i primi piccoli capolavori (su tutti la ballata “London Boys”, le due canzoncine naif “The Laughing Gnome” e “Rubber Band” e la sublime “Love You Till Tuesday”) e un album (“David Bowie”, 1967) ma il successo è ancora lungi dall’arrivare. Contemporaneamente Bowie diversifica le proprie attività: studia mimo con Lindsay Kemp, recita in un mini-film basato su “Love You Till Tuesday”, crea un laboratorio artistico e organizza festival all’aperto dove, ovviamente, suona anche lui. Da solo, la chitarra. Perché nel frattempo Bowie da Mod che era ha assunto l’aspetto di un hippie dai capelli lunghi e ricciuti e, influenzato da Bob Dylan, si è messo a comporre (soprattutto ma non solo) ballate cantautoriali dalle liriche simil-profetiche, quale ad esempio “Cygnet Committee”.
Nell’estate del 1969 David Bowie finalmente rompe il muro d’indifferenza: “Space Oddity”, una ballata pop orchestrale dal testo fantascientifico ispirato alla missione dell’Apollo 11, arriva nei quartieri alti delle classifiche inglesi in parallelo con lo sbarco sulla luna di Neil Armstrong e compagni. A fine anno esce un altro album intitolato per la seconda (ed ultima) volta “David Bowie”, nel complesso più cantautoriale rispetto al singolo. Ottiene però scarsi riscontri sia di critica che di vendite, a dispetto della presenza di alcune notevoli visionarie canzoni (“Unwashed And Somewhat Slightly Dazed”, “Wildeyed Boy From Freecloud” e la già citata “Cygnet Committee”) e del fatto che il disco sia prodotto da un certo Tony Visconti, un tipo americano che in futuro sarà associato a non poche pietre miliari del Rock. Bowie continua a restare al palo, e che fa? Diversifica ancora. Insieme a Visconti (per l’occasione bassista) e a un ancora poco noto Marc Bolan mette su un gruppo, The Hype, che pubblica il (bel) singolo “The Prettiest Star”. E incoraggiato dalla neo-moglie Angie, cambia look: ora Bowie appare in un abito che sembra da donna e si dà arie da androgino; anzi, da gay, come butta lì tra il serio e il faceto in un’intervista-shock rilasciata a Melody Maker: “I’m gay and I’ve always been, even when I was known as David Jones”. Ma aldilà delle montature mediatiche, il nuovo disco che pubblica alla fine del 1970, “The Man Who Sold The World”, si rivela zeppo di grandi canzoni e singolarmente heavy, grazie al contributo di una band in cui suonano oltre a Visconti (presto rimpiazzato dal bassista Trevor Bolder) un incredibile chitarrista di nome Mick Ronson e un batterista chiamato Woody Woodmansey: i futuri Spiders From Mars, insomma. Ma non è il momento di Bowie. Non ancora. (continua nella 2a parte)
Articolo del
25/05/2008 -
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