(segue dalla 1a Parte)
Il pubblico continua a ignorarlo, ma la stampa più ricettiva comincia a scorgere in David Bowie un possibile talento, fin da quando pubblica nel dicembre 1971 l’album “Hunky Dory”, un’opera eccellente che prende l'abbrivio dalle passioni per Dylan (“Song For Bob Dylan”) e per i Velvet Underground (“Queen Bitch”) per andare a creare i primi classici del genere che i posteri denomineranno “Glam Rock” (“Changes”, “Oh You Pretty Things”, “Life On Mars?”), brani dalle liriche imperniate su quelli che a tutt’oggi sono dei classici temi “bowiani”: il decadente senso d’isolamento, la fantascientifica alienazione e l’irrequietezza esistenziale che porta alla necessità di “reinventarsi”, unico modo affinché l’individuo possa “napoleonicamente” plasmare il proprio destino. E’ un periodo di straordinaria creatività per Bowie, che - non si sa come - trova il tempo per produrre due dei migliori album dei suoi idoli Lou Reed e Iggy Pop; per regalare una intensissima canzone, “All The Young Dudes”, al gruppo dei Mott The Hoople; e, nel giugno 1972, per lanciare “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust & The Spiders From Mars”, ovvero: uno dei più ispirati dischi pop di tutti i tempi. E qui Bowie, divenuto anche fisicamente “Ziggy” (capelli proto-punk tinti d’arancione, rossetto e trucco pesante, tuta simil-spaziale e stivali con tacco alto venti centimetri) fa il botto su tutti i piani possibili: apparizioni in TV, album e singoli ai primi posti delle classifiche UK, concerti (iper-teatrali) sold-out. Inizia la “ZiggyMania” che durerà un paio d’anni, con gli album “Aladdin Sane” e “Pin Ups”, per concludersi con un fatidico concerto il 3 luglio 1973 all’Hammersmith Odeon di Londra in cui, prima del culmine finale “Rock And Roll Suicide”, Bowie spiazza tutti annunciando: "Not only is it the last show of the tour, but it's the last show that we'll ever do" che gli astanti interpretano come un (clamoroso) totale ritiro dalle scene.
Ma per fortuna non è così. Bowie rottama (solo) il periodo glam e il suo alter ego Ziggy con annessi Spiders From Mars, e cambia radicalmente scenario. La sua nuova base ora diventa New York City, dove con l’aiuto di un colto pianista di nome Mike Garson (e di Mick Ronson, con cui collabora per quella che sarà l’ultima volta) compone le canzoni che faranno parte dell’epopea ispirata al libro “1984” di George Orwell: “Diamond Dogs”, disco uscito nell’aprile 1974, che musicalmente è una rivisitazione sofisticata, jazzata e a tratti sperimentale della musica glam. “Diamond Dogs” è un nuovo portento e documenta quanto Bowie sia maturato come cantante – fino a divenire il migliore della sua generazione - in grado di alternare calde tonalità da crooner a momenti in cui appare altezzoso e sibilante. Comunque sia, sempre superbo. Le canzoni di “Diamond Dogs” (“Sweet Thing” e “We Are The Dead” su tutte) sono dei piccoli affreschi impressionistici con una spruzzata di rock’n’roll tanto per gradire (la stonesiana title-track e l’estremo saluto al glam di “Rebel Rebel”), che Bowie porta poi in tour negli USA con una sequenza di storici concerti che sono i più teatrali e decadenti che palcoscenico rock abbia mai visto fino a quel momento, e di cui rimane una imperdibile testimonianza sonora (ma, ahimè, non visiva) grazie all’album “David Live”, registrato il 29 ottobre 1974 al Tower Theatre di Philadelphia in Pennsylvania, in cui Bowie stravolge – e quasi sempre migliora – tutti i brani del proprio repertorio. Proprio a Filadelfia Bowie viene travolto da una nuova passione: il funk, genere di origine black che da lì a poco sfocerà nella febbre per la disco. E di lì a poco disorienta tutti ancora una volta realizzando – grazie anche al basilare apporto del chitarrista ritmico Carlos Alomar – “Young Americans”, raccolta di canzoni dalla base funk filtrate da una sensibilità bianca (e più che bianca: inglese). Una novità assoluta, che all’epoca non viene compresa e che non lo sarà almeno fino agli anni ’80, quando band come Talking Heads, Spandau Ballet e Style Council daranno nuovo lustro all’antica intuizione bowiana. Tra una pietra miliare e l’altra, Bowie continua nel processo di diversificazione e se ne va nel deserto del New Mexico a interpretare il ruolo del protagonista ne “L’uomo che cadde sulla Terra”: il film di fantascienza (oggi un classico) diretto da Nicolas Roeg che racconta le vicissitudini di un alieno inviato da noi con la missione di salvare il proprio pianeta, ma che alla fine resta sulla Terra, corrotto come e più di quanto non lo siano gli umani che incontra. E’ un ruolo fatto su misura per Bowie, la cui ultima trasformazione (magrissimo, dai capelli bicolori, in giacca e cravatta e con un incongruo cappello anni trenta calato in testa) contribuisce in modo determinante al mito della star eccentrica, innaturale e venuta chissà da dove. E’ proprio un’immagine tratta dal film a rappresentare Bowie nella copertina del disco successivo “Station To Station”, in cui oltre all’amato funk si fa strada (in particolare nell’epica cavalcata della title-track) la nostalgia dell’espatriato per il Vecchio Continente e una inedita passione per il rock “crauto” ed elettronico di due gruppi tedeschi chiamati Kraftwerk e Neu!.
Il dado è tratto: Bowie torna in Europa, dapprima in Svizzera dove possiede una casa e dove cresce da ragazzo-padre il figlio Zowie (in seguito Joe, ma oggidì si fa chiamare Duncan) avuto dalla divorziata Angie; poi a Berlino Ovest, dove, stimolato dalle opprimenti atmosfere di quella città divisa in due e dalla creatività di Brian Eno (ex-Roxy Music e fautore della musica ambient) e del produttore Tony Visconti, dà vita tra il 1977 e il 1979 a “Low”, “”Heroes”” e “Lodger”, che passeranno alla storia come la “Trilogia Berlinese” (anche se in realtà “Low” è inciso in Francia e “Lodger” in Svizzera e New York). Dà così vita a una seconda rivoluzione - dopo quella del Punk che sta mettendo a soqquadro il Regno Unito – in cui il pop inglese viene fuso con il kraut-rock e l’elettronica, e per di più con un’intera facciata di “Low” dominata da decadenti, inquietanti strumentali di matrice ambient: tre opere (con l’aggiunta del bel documento sonoro della tournèe del ’78 “Stage”) che avranno profonde e incalcolabili ripercussioni per tantissimi anni a venire, in primo luogo su tutta quella scena chiamata new wave o post-punk ma la cui definizione migliore resta forse quella di art-rock. E il mito di Bowie, il musicista all’avanguardia che non sbaglia un colpo, cresce di anno in anno: in Inghilterra artisti in vario modo seminali come Joy Division, Gary Numan, Echo & The Bunnymen, Japan, e tutta la scena del nascente techno-pop “new romantic” (generata con le “Bowie Nights” di alcuni club di Londra) gli rendono omaggio ed esplicitano la sua immensa influenza. E il suo status di semi-Dio della musica è definitivamente certificato con l’uscita nel 1980 dell’album “Scary Monsters”, ennesimo capolavoro di rock elettronico stratificato e trasversale - che può essere considerato un predecessore di tanto indie-rock degli anni ’90 – e di “Ashes To Ashes”, che oltre a diventare una delle pop-songs fondamentali del decennio, arriva accompagnata da un epocale video-clip dove Bowie in qualche modo chiude un cerchio impersonando un suo vecchio personaggio, il Major Tom del primo successo “Space Oddity” abbandonato in una capsula spaziale ad orbitare intorno alla Luna.
(continua nella 3a parte)
Articolo del
29/05/2008 -
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