(segue dalla 2a Parte)
Bowie nei primi anni Ottanta è come il prezzemolo: è a teatro, a Broadway, a recitare “The Elephant Man”; al cinema, in “Miriam si sveglia a Mezzanotte” di Tony Scott, in “Furyo” di Nagisa Oshima, e in un’indimenticabile apparizione live in “Christiane F. – noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino” di cui le sue canzoni “berlinesi” costituiscono la naturale colonna sonora; e naturalmente è anche nelle classifiche, con il singolo più mainstream che abbia fino ad allora realizzato, “Under Pressure” in coppia con i Queen di Freddie Mercury, n.1 in vari Paesi nell’inverno 1981. Arriva un altro nuovo album ed è un nuovo trionfo, di critica ma stavolta soprattutto di vendite: con “Let’s Dance” (1983) prodotto da Nile Rodgers degli Chic, Bowie rinverdisce e aggiorna la sua passione per la musica black, creando alcune delle canzoni (la title-track e “Modern Love” in primis) più ballate dell’epoca. Senza contare che il “Serious Moonlight Tour”, con cui Bowie promuove l’album, è un successone che vede stadi esauriti in tutto il mondo (tranne l’Italia, che ahimè è bypassata per l’ennesima volta). Per la prima volta David Bowie, da artista quasi di culto, diventa una superstar di livello internazionale. Il disco successivo non può che essere un anticlimax; “Tonight” esce forse troppo presto - nel settembre ’84 - e mostra un Bowie per una volta a corto di ispirazione, che propone tante, troppe cover. Non sono male il reggae solare di “Don’t Look Down” e il rock sintetizzato di “Blue Jean”, ma a svettare in fondo è unicamente “Loving The Alien”, una monumentale pop-song orchestrale che da sola vale tutto il disco. In questa parte degli anni ’80, Bowie si gode il suo status da megastar: partecipa a Live Aid (13 luglio 1985) con una delle migliori performance della giornata e con un video in cui insieme a Mick Jagger canta il vecchio hit della Motown “Dancing In The Street”, fa uscire un paio di brillanti singoli (“Absolute Beginners” e “This Is Not America”), e compare in un paio di film non indimenticabili (“Absolute Beginners” e “Labyrinth”). Finalmente, nel 1987 pubblica un nuovo album, “Never Let Me Down”, ma è sovraprodotto, caotico, senza una qualsivoglia direzione e, soprattutto, senza l’ombra di alcun brano memorabile. Ma la notizia vera è che Bowie tornerà in tournèe e che stavolta porterà in giro un megaspettacolo teatrale dal titolo “The Glass Spider”, come uno dei brani del disco.
A questo punto Bowie ha 40 anni. Ha dato quello che doveva dare, ha indicato la Via per una decade e più. Ora – verosimilmente - l’ultima ambizione che gli rimane è quella di creare una versione col turbo del già teatralissimo “Diamond Dogs” con tanto di scenografia-monstre e di un nutrito corpo di ballo. Un esperimento ambizioso e un po’ folle che grazie alle nuove tecnologie sarà possibile, stavolta, portare in tutti i Continenti. Quando Bowie arriva (finalmente – per la prima volta) negli stadi italiani per cinque date nell’estate 1987, il “Glass Spider Tour” si porta appresso una reputazione disastrosa: la stampa estera lo ha paragonato al film “Spinal Tap” – divertente parodia di un pretenzioso gruppo rock – mettendo alla berlina l’idea del colossale ragno di cartapesta da cui Bowie viene calato all’inizio di ogni concerto e bollando le pacchiane coreografie. E poi (si dice): troppi inutili balletti, troppi dialoghi incomprensibili tra il cantante e i ballerini, e la musica - quando non è in secondo piano - non raggiunge mai il livello del passato, anche perché al raffinato Adrian Belew e al solido Earl Slick (chitarre soliste nei due tour precedenti) è stato preferito per l’occasione Peter Frampton, una vecchia gloria del pop nonché amico d’infanzia di Bowie ma di certo non un asso della sei corde. E tuttavia, quando Bowie arriva da noi, il pubblico italiano francamente se ne infischia dei pareri del suo più smaliziato omologo d’OltreManica: è la prima volta che vede Bowie dal vivo, e sarà anche l’ultima occasione in cui lo vedrà così, nel pieno delle energie e della sua voglia di affermare la sua concezione della musica e dell’arte. E anche se le obiezioni sollevate sul “Glass Spider” risultano in parte fondate - il solo di chitarra di Frampton su “”Heroes”” è atroce - assistere a Bowie che corre, salta, balla, si arrampica sulle funi e interagisce con musicisti e ballerini è di per sé uno spettacolo; il siparietto di “Bang Bang” con una danzatrice che, finta spettatrice, viene estratta dal pubblico, è incantevole nella sua palese artificiosità; la riscoperta di alcuni vecchi classici come “All The Madmen”, “Big Brother” e “Sons Of The Silent Age” fa gridare al miracolo; e “Time” cantata alla perfezione da Bowie in cima al tanto deprecato “ragno di vetro” vale da sola il prezzo del biglietto. Il “Glass Spider Tour” si conclude il 28 novembre 1987 allo stadio Western Springs di Auckland in Nuova Zelanda con l’unica certezza che, se di fallimento si è trattato, almeno è stato un tonfo alla Bowie: eccessivo, spettacolare, fragoroso, senza mezzi termini, comunque diverso da tutti i contemporanei. Scottato dall’esperienza e forse cosciente del tempo che inesorabilmente è trascorso (“Time - He's waiting in the wings/ He speaks of senseless things / His script is you and me boys...”, come cantava nello storico brano di “Aladdin Sane”), da questo punto in poi Bowie tornerà (per davvero) “sulla terra” e apparirà in qualche modo “normalizzato”, privo degli slanci che lo avevano reso così influente e così amato. Anche se al tempo nessuno - e forse nemmeno Bowie - se ne rende conto, quel 28 novembre 1987 si chiude di fatto un’epoca (quella bowiana) irripetibile.
(continua nella 4a parte)
Articolo del
02/06/2008 -
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