Viviamo in tempi di musica leggerissima.
E questo credo fosse un dato di fatto ben prima del meritato onore delle cronache per Colapesce e Dimartino.
Viviamo in tempi di musica leggerissima per la percezione stessa che la musica (e tutto quello che le gira intorno) ha, un qualcosa che sia un disinteressato sottofondo, un accompagnamento blando, un passatempo.
Tempi nei quali, tanto per cambiare, “il ritmo strano di questa vita” (unito comunque ad una discreta spolverata di sufficienza, che non guasta mai, figurarsi) ci fa trovare il tempo di starnazzare al plagio per un pezzo che ha un giro di accordi talmente comune che non basterebbe un anno a pescare tutte le canzoni che lo utilizzano a loro volta, ma che non ci permette di fermarci un attimo ad analizzare quel pezzo, manco a dirlo bollato davvero come “musica leggerissima” in venti secondi scarsi.
Un pezzo che parla di depressione, malinconico alle soglie del blu, che viene liquidato come roba buona per le storie Instagram (beninteso, se anche solo una persona si sarà andata a sentire “Cara maestra, abbiamo perso” o “Afrodite” o “Un meraviglioso disastro” o “Infedele”, sarà già una vittoria, è chiaro), mentre le “porcherie sintattiche” di un Gazzelle (che, continuo a dire che è un nome- manifesto di tutto un filone raccapricciante) vengono prese come breviari sulla depressione. Depressione che, manco a dirlo, non ha nulla a che fare con quelle canzoni, per le quali è evidente l’illuminato contributo letterario della nostra cara scimmia con la matita in culo.
Oltre che a decontestualizzare le parole, vedi la depressione di cui sopra, siamo riusciti pure nell’impresa di decontestualizzare la musica, sia nei suoi significati letterari che in senso stilistico.
Ad esempio, l’indie è un genere ed il pop è automaticamente merda.
Per sfatare questi due miti, soprattutto il secondo, basta raccontare di Marco Castello e del suo “Contenta tu”.
Marco Castello è di Siracusa, ed il suo album, nonostante dei colori stilistici pieni di jazz e di pop raffinatissimo, componenti decisamente lampanti, è fortemente ancorato alla sua terra, ed ha una componente, questa sì, più nascosta, che può essere compresa con maggiore facilità solo da un conterraneo (qualora non si fosse capito e/ o non mi abbiate mai letto prima d’ora- cosa che mi dispiace molto per voi- sono io): è un album denso di sicilidade.
No, non è un medievalismo sbagliato tipo “beltade” o altre cose simili.
E’ la crasi fra sicilianità e saudade.
Mi verrebbe da definirla, aggettivando in modo abbastanza improprio, che è un insieme di fatalismo, rassegnazione, slancio titanista e resilienza (altra parola totalmente decontestualizzata, ma in questo caso abbastanza centrata).
Se vi sfugge qualcosa del connubio che scaturisce da questo mix esplosivo di disillusioni e resistenze di vario genere è perché non siete siciliani.
Questo sapore agrodolce porta ad un disco che, se da un lato ha una discreta componente nostalgica, dall’altro è carico di una autoironia leggera e frizzante.
Già i primi versi del disco, che comincia con “Porsi”, sono abbastanza esemplificativi ed, a mio personalissimo parere, geniali: “Mi hai disegnato un cazzo sul diario/ con le orecchie di coniglio e due occhi grandi”. Game, set, match, già basterebbe quello. Poi, se consideriamo che il pezzo è sostenuto da un tappeto di piano elettrico languido ed evocativo, che rende alla perfezione il leit motiv da rimembranza del pezzo, beh… abbiamo un piccolo gioiello di musica fotografica.
Segue “Cicciona”, brano contraddistinto da un pattern di batteria scatenato, sul quale entra a gamba tesa una linea di basso ipnotica e vorticosa, mentre l’elegante tappeto di piano e synth riempie definitivamente il pezzo.
Nel comunicato stampa che c’è arrivato c’era un file in cui Marco spiegava il disco track by track. Alla fine del file venivano citati pure gli artisti di riferimento. E mi ha fatto molto sorridere come l’assenza di Pino Daniele abbia fatto crollare in trenta secondi le mie certezze su questo album. Dopo ci torno meglio, per ora, per intenderci, diciamo che un pezzo come “Luca”, terza traccia del pezzo, con la sua aria sospesa ed il suo taglio ironico- è una specie di dissing al fratello tuttofare, con uno splendido “non sono io presuntuoso/ ma tutti gli altri sbagliati” che probabilmente farò incidere sulla porta della mia stanza- mi ha riportato (cori a parte) alle atmosfere di “E so’ cuntento ‘e sta’ “ e “A testa in giù”. Si tratta di un pezzo sorretto da una chitarra acustica, con una linea di basso marcata a fare quasi da solista e gli ingressi delle tastiere in levare che colorano la dinamica del pezzo.
Anche su “Torpi”, equivalente siracusano di “tamarro”, linea di basso fotonica e pattern di batteria indiavolato fanno la voce grossa, con una chitarra elettrica funkeggiantemente impazzita e dei fraseggi di wurlitzer e synth a fare da scheggia impazzita.
“Palla” strizza l’occhio a colori carioca, con un piano che gocciola grappoli di note sul pezzo. L’attacco dell’elettrica, da potente che è, si dissolve e si dilata fra i circuiti di un wah. Alla base di tutto, basso e chitarra acustica sorreggono con malinconica eleganza la struttura del brano. ”E capovolgi la cattedrale/ dentro a un vetro inizia a nevicare/ ed io non so sciare.”
Piccolo cambio di rotta stilistico su “Marchesa”, dove- insieme al solito, onnipresente e straripante basso- tocca al synth prendere per mano il pezzo. Il tappeto di elettronica sotto non fa altro che riempirne l’atmosfera, mentre gli ammiccamenti funky della chitarra elettrica ne marcano l’atmosfera.
Atmosfera dilatata, resa da una chitarra elettrica delicatissima, per raccontare la Siracusa di “Contenta tu”, brano permeato da quella saudade in salsa sicula di cui si parlava qualche riga fa. “Sei bella ma cretina/ e vuoi assomigliare a qualcosa che invece fa schifo/ e qui è il posto più bello del mondo/ senza avere visto mai nient’altro/ contenta tu” in un pezzo che unisce la malinconia alla rassegnata disillusione dei siciliani. Contenti noi…
Un bell’incrocio fra basso e piano, col tappeto ritmico della chitarra acustica, accompagna “Viaggio”, pezzo dai colori acquosi e carioca. Sul finale, entra un trombone ad allargare ancora di più l’atmosfera di un pezzo che fa del racconto non banale della normalità la sua cifra letteraria.
Lo spazio del folk è occupato da “Addiu”, pezzo della tradizione siciliana riarrangiato per l’occasione. Un piano uscito direttamente da un disco di Leon Russel guida il pezzo, facendo da tappeto per una linea di basso incisiva ed avvolgente.
A chiudere il disco è “Dopamina”, probabilmente la traccia più bella del disco, con un testo ironico e sferzante, “E’ il giorno che un analfabeta mi fa la morale/ sarà che bolle il sangue/ O è solo per la dopamina/ che il mondo se la mina”, ed una base di organo e tastiere sulla quale si incastrano perfettamente basso e chitarre.
Poco fa avevo detto che sarei tornato su Pino Daniele, e lo faccio adesso. Perché “Contenta tu”, seppur con un linguaggio ed uno spirito diversi ha, per i siciliani, la stessa forza che per i napoletani ebbero i primi cinque dischi di Pino, quella capacità incredibile di racchiudere un intero popolo in una manciata di canzoni, di saperne cogliere gli aspetti peculiari del carattere e del modo di intendere la vita.
Oltre al fatto che una commistione così ben riuscita fra jazz e pop, nel panorama indipendente attuale, rappresenta un qualcosa di cui c’era enorme bisogno, un memento su quanto anche l’alta musica leggerissima sia necessaria.
Articolo del
18/03/2021 -
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