Uno dei ricordi più divertenti dei miei cinque anni di liceo risale a quando ci chiesero di mettere in scena il Miles Gloriosus, ovviamente di Plauto, per un open day.
Magari un giorno entrerò nel dettaglio di quella vicenda assurda, che merita di essere raccontata, ma al momento mi interessava parlare proprio del Miles Gloriosus.
O meglio, della commedia romana.
Commedia romana che, chiaramente, prende le mosse da quella greca e che, come in tutte le cose che, in un modo o nell’altro, segnano un’epoca, ha degli stilemi ben precisi.
E dei meccanismi altrettanto ben evidenziati.
Per esempio, un fattore ricorrente della commedia romana e di quella greca, è la trama intricatissima, piena di intrecci e di sottotrame, di solito sciolte tramite l’agnizione, la scoperta di un preciso carattere di uno dei personaggi che, appunto, permette di dirimere tutti i nodi.
Altro tipo di situazione ricorrente, vedi, appunto, il Miles Gloriosus, è la commedia della caricatura, che vede come situazione ricorrente la presenza di un eroe (o presunto tale) sbruffone, che millanta chissà quali grandi e coraggiose imprese.
Di solito, questo tipo di commedia si risolve utilizzando delle beffe, una serie di tranelli e di saltafossi orditi ai danni di questo presunto eroe da un servus callidus, un servo astuto, vero protagonista del teatro plautino.
L’eroe sbruffone (o tracotante, giusto per far fede alle traduzioni alte) ed il servo astuto sono due classici tipi del teatro plautino, all’uno corrisponde perennemente l’altro, in un eterno inseguirsi.
Dice: perché parli di Plauto in un articolo di critica musicale?
Perché sono fermamente convinto che il teatro sia vita, e per “vita” intendo che ci sia ben poca finzione in esso.
Anzi.
Spesso un personaggio di una commedia è la summa di tanti tipi umani, condensati e nascosti dietro una maschera.
Ad esempio, il già citato eroe sbruffone.
Mi sembra evidente che anche nel mondo della critica musicale ci siano un sacco di Pirgopolinice, e la cosa grave è che lo sono spesso per legittimazioni altrui.
Altro esempio pratico: conferenza stampa di presentazione di un disco, quello di cui parlerò fra qualche riga, mi avevano invitato ed io sono andato.
Ammetto candidamente di aver resistito mezz’ora, poi mi era già cascato per terra tutto quello che poteva cascare, virtù adamitiche in primo luogo, e sono uscito, ed anzi, già che ci sono lo scrivo, così patti chiari ed amicizia lunga con gli amici degli uffici stampa: io alle conferenze partecipo pure (anche se è molto probabile che poi esca quasi subito), ma non aspettatevi da me i resoconti sulle conferenze, io parlo di musica, chè di parole intorno alla musica ce ne sono già troppe, queste qui comprese.
Una inutile passerella di sepolcri imbiancati, di poser del cazzo che, soprattutto in tempi di carenza di ospitate tv, non hanno altro mezzo per farsi vedere, se non zoom.
A questo punto si arriva al meccanismo della agnizione, del disvelamento, che in questo caso può tranquillamente passare per harakiri.
Una delle prime domande che arrivano a Serena Altavilla, sarà lei la protagonista di questo racconto che fra poco, fortunatamente, parlerà di tanta musica interessantissima, è “a firma” Luzzato Fegiz, uno universalmente (??) riconosciuto (??) come una delle voci di punta della critica musicale italiana.
Bene, la domanda che pone è come abbia fatto Serena, che sta a Prato, a trovare l’ispirazione in una città dove notoriamente non c’è una minchia, se non tanti cinesi. Che l’ispirazione per scrivere canzoni-suggerisce il nostro- sia arrivata direttamente dai suddetti cinesi?
Credo che il punto sia abbastanza chiaro: perché?
Fra l’altro, questa domanda apre ad una ulteriore considerazione: perché continuare a dar credito a vecchi tromboni (che comunque non è che da giovani si fossero distinti per acume o preparazione), incensandoli e ricercandoli?
Era palese a tutti i partecipanti (e chi dice il contrario mente sapendo di farlo) che non avesse sentito il disco di Serena- che noi avevamo da più di dieci giorni- manco per sbaglio, e che si trovasse lì- lui come tanti altri- solo per far bella mostra di sé.
Dice: “Eh, Giuseppe, ma dovresti avere più rispetto per i colleghi”.
A parte che non siamo colleghi, lui è un giornalista ed io no, e sottolineo che la cosa non mi dispiace affatto, per me è naturale distruggere uno quando spara una cazzata, per altro senza prendere neanche la mira, avrebbe detto il grande Enzo.
E poi il vero punto è un altro: cose del genere fanno male alla musica ed a tutto quello che la circonda.
Questi divismi da quattro soldi sono trattamenti che gli artisti- tanto più quelli che tirano fuori un disco d’esordio- non meritano. Se volete farvi vedere, date fuoco ad una chiesa, stile Burzum, o presentatevi in conferenza facendo l’elicottero col cazzo. Ma non prendete per il culo gli artisti ed i loro lavori.
E voglio vedere quante recensioni serie (copiare i comunicati stampa non vale, ovviamente) a firma dei presenti alla conferenza usciranno, quanti di loro ascolteranno davvero il disco: se non ci troviamo davanti a dei cialtroni, Serena dovrebbe vincere il Tenco come opera prima. E se accadrà- ne sarò contentissimo per lei- io sarò pronto a venire a Canossa col capo cosparso di cenere ed un cilicio.
Staremo a vedere, ma ci credo molto poco.
Sia ben inteso, non è per moralismo spicciolo, mi fa schifo qualsiasi moralismo, né per dare lezioni, anche perché sono l’ultima ruota del carro.
Semplicemente, la mia idea di critica musicale è molto simile al “casa per casa, strada per strada”, una sorta di “disco per disco, parola per parola”, e si fa scrivendo ed ascoltando, i protagonisti degli articoli e di qualsiasi nostra uscita, anche se spesso sembra il contrario, devono essere gli artisti ed i loro lavori.
Tutto qui, chi fa altro lo fa per protagonismo inutile.
Proprio per questo motivo arrivo a parlare di questo “Morsa”, opera prima della già citata Serena Altavilla.
In realtà si potrebbe parlare tranquillamente di un non- esordio, dal momento che Serena ha una carriera pluridecennale da voce dell’alt- rock di casa nostra: dai Baby Blue ai Solki, passando per le collaborazioni con, fra gli altri, Calibro 35 e Mariposa, ed una quantità quasi industriale di palchi calcati.
Chiaramente, al di là del curriculum, si tratta di un vero e proprio esordio da solista, con musica e testi scritti da lei (e, nel secondo caso, anche da Patrizio Gioffredi).
A colorare questo album, una finestra aperta su mille mondi non solo musicali, ci pensa un cast di musicisti di altissimo livello, da Enrico Gabrielli e Fabio Rondanini, passando per Luca Cavina e Jacopo Lietti, fino a Marco Giudici, Matteo Lenzi, Adele Altro e Valeria Sturba.
Un lavoro che si apre con “Nenia” (“Guidami così/ Tracciando un sentiero di sabbia/ Per non dover fare una scelta /Per perdersi ancora una volta” ), pezzo sorretto da un tappeto di synth acquosi, cui fa da contraltare un pattern ritmico incessante, sul quale la voce di Serena si sposa alla perfezione, risultando non eccessiva ed estremamente centrata.
“Distrarsi” ha, anche in questo caso, una base di synth a recitare la parte del leone, con una sezione ritmica rinforzata da una linea di basso vorticosa ed una sezione di fiati che allarga l’atmosfera del pezzo. “Troppe parole poi, troppe promesse, sai. Troppe tempeste noi, nessun riparo, mai”
Terza traccia è “Rasente”, pezzo incredibilmente fotografico, che rende alla perfezione una sensazione di crollo, e lo fa facendo sposare molto bene un testo densissimo (“Smetterai di ridere e ti accorgerai che oggi ho solo fuoco dentro l’anima. Magma incandescente e niente carità solo un altro inferno che ti brucerà”) con una parte musicale ruvida, scandita da synth ed elettronica ed arroventata da basso e batteria acidissimi.
“Epidermide”, che del disco è stato il singolo di lancio- è un piccolo capolavoro di ispirazione post punk, scuro nelle intenzioni e nella messa in pratica: uno splendido muro del suono, fatto di synth, elettronica, fiati ed archi, incontra un pattern ritmico dai fill incendiari. Splendida anche la prova vocale, con una interpretazione densa di pathos e di potenza teatrale.
“E quando poi/ Mi guarderai/ Ti ferirò per dirtelo/ Che la violenza è un’estasi/ Tra noi”
Giro di boa del disco affidato a “Un bacio sotto il ginocchio”, pezzo più acustico, sostenuto da un elegante tappeto di fiati ed archi, che sembra venire quasi da un altro tempo, lontano e sospeso. “Per ogni bacio sotto al ginocchio che mi darai, affonderemo mille scialuppe di marinai. E ogni carezza lungo la schiena, ogni respiro si farà vento, farà tremare il mondo intero” sono uno splendido racconto dell’amore, reso con delle immagini molto interessanti, versi che un attimo dopo si trasformano nella potenza più deflagrante, E ti amerò finché vorrai, saranno indistinguibili i confini tra di noi. E spariranno idioti e dei, il tempo avrà dei codici inediti” e che finiscono con la ripresa, qui quasi disillusa, di un topos letterario classico come quello della luna, “Volta la testa
Guarda la luna, eccola là. Lei si ricorda com’era fatta l’umanità”.
Segue “Tentativo per l’anima”, altro splendido esempio di incontro fra elementi classici- un violoncello che oscilla fra svisate soliste ed ostinati che riempiono- ed una base di synth che fa da tappeto, in un connubio davvero ben riuscito e molto immaginifico nelle atmosfere che riesce a creare. “Resta qui, anima, domani”.
“Sotto le ossa” ha una interessante aderenza fra testo e musica, rimandata dai fill fantasiosi della batteria, vero elemento spiazzante del pezzo, che, per il resto, trova nei contrappunti di sax la sua ulteriore dose di coloro, il tutto ben adagiato su un tappeto di syhnth e violoncello, che condensano ulteriormente l’atmosfera. “Ritrovare la via, seminare il viavai. Ma io sono ancora qua. Il sonno l’ho perso in un soffio di mare, richiamo per stormi infiniti e zanzare”
Ottava traccia è “Forca”, quasi una richiesta di aiuto condensata in un “A- I- U” vocalizzato per tutto il pezzo, pezzo sostenuto da un crescendo strumentale, una esplosione detonante di elettronica e synth.
Altro esempio- riuscitissimo- di “musica visuale” è “La trascrizione dei sogni”, pezzo che sembra uscito direttamente da un incrocio fantasioso fra Joan Mirò e Alfons Mucha, con quel connubio sghembo e delicato fra archi e theremin, che manda il pezzo direttamente su vette altissime e mondi nuovi.” L’affanno e l’incertezza li scongiurerò. E il dio della tristezza io maledirò. La notte nuda, attesa, ci ripagherà. ”
A chiudere il disco è “Quaggiù”, pezzo oscuro, a tratti soffocante, sorretto quasi solamente da una base di elettronica e percussioni molto rarefatta, vischiosa. “Così le tue sembianze écru scorderò dentro a un buco nero. Quaggiù si smarriranno poi, flebili come note tenui”.
C’è, in questo lavoro, una capacità espressiva fortissima, che risalta soprattutto nel riuscire a condensare in immagini le atmosfere musicali di ogni pezzo, giochino possibile anche grazie alle capacità vocali di Serena, che, nel passare da un’atmosfera all’altra, tira fuori tutti i colori della sua voce, in una prova splendida di teatralizzazione della voce.
Capacità evocativa restituita molto bene anche dai testi, pieni di versi suggestivi, eleganti e poetici, che riescono a fornire soluzioni narrative interessanti e mai banali, e capite bene che, raccontando l’amore, riuscire in quella cosa lì non è mai scontato.
Un lavoro, questo, costantemente in bilico fra il realismo della narrazione e l’onirismo della sua resa poetica, un disco che si mette a nudo e si svela.
Come un’agnizione.
Articolo del
12/04/2021 -
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