“Schiavi nella città più libera del mondo”, oltre ad essere il primo EP in cui sono comparsi i Raf Punk (1982), è anche il titolo del libro di Laura Carroli che dei Raf Punk era la batterista. La città del titolo è la Bologna della fine degli anni '70, quella di Radio Alice, dei negozi di dischi Nannucci e Disco d'Oro, dei centri sociali, di Oderso Rubini, Red Ronnie e gli Skiantos ma che veniva definita dalla punkzine Metal Machine Music “una città di merda, piena di gente di merda che fa cose di merda”. Londra invece è la città dei sogni. Nella capitale inglese si va viaggiando in treno o in autostop, per andare ad ascoltare la nuova musica punk e new-wave con la speranza di trovare dei dischi a prezzi accessibili. Con le poche e frammentarie informazioni a disposizione si può arrivare a vedere Patti Smith al Reading Festival riuscendo perfino ad entrare senza pagare. Oltre ai dischi si cercano spillette, accessori e capi di abbigliamento della moda punk per sentirsi adeguati rispetto ai coetanei britannici. Già dalla fine degli anni '70 Laura, insieme al fidanzato Jumpy, va piuttosto spesso a Londra sia per acquistare dischi e vestiti che per vedere concerti (Public Image Ltd., Sham 69, ecc.). Scegliere di essere punk in quegli anni significava subire critiche, giudizi ed anche un po' di emarginazione. Erano gli “Anni di Piombo” e Bologna, come il resto d'Italia, era scossa dal terrorismo sia di destra che di sinistra e la polizia reprimeva sommariamente le manifestazioni di dissenso, spesso accanendosi su quegli “strani” punk, i quali erano spesso legati ai movimenti anarchici. Contestare tutto e tutti cercando di cambiare il mondo era la filosofia dei giovani punk rockers e non si facevano distinzioni, nemmeno se a suonare fossero i Clash (volantinaggio di protesta a Bologna, 1980), i Ramones (dare le spalle al palco a Reggio Emilia, 1980) o i Bauhaus (sputi di provocazione a Bologna, 1982). La ribellione e l'anticonformismo venivano espressi attraverso le fanzine (Punkaminazione, Attack Punkzine) e la musica, suonando, facendo radio, organizzando concerti e autoproduzioni con piccole etichette indipendenti come la Attack Punk Records che per prima produsse i CCCP. La musica insomma come veicolo perfetto per comunicare le proprie idee. Laura si sentiva sveglia, pronta e recettiva, mentre l'Italia intera sembrava addormentata, indietro ed ignorante.
L'intervista all’autrice Laura Carroli
Il punk veniva spesso associato all’anarchia, vi sentivate in obbligo ad essere coinvolti politicamente? Non era un obbligo, io facevo parte del collettivo anarchico degli studenti sin dal liceo, distribuivo volantini e “A rivista anarchica”. Proprio per questo siamo stati accettati dai compagni anarchici più vecchi che ci hanno fatto usare la sede della FAI (Federazione Anarchica Italiana).
Contro tutto e contro tutti, eravate davvero così? Si, proprio così. Ci sentivamo esclusi da qualsiasi iniziativa istituzionale e non ci riconoscevamo in niente di quello che veniva proposto in Italia, ci disgustavano le offerte di TV e riviste, anche il Movimento al quale avevamo partecipato in passato si era disciolto tra partitini e droghe.
Che cosa avreste voluto cambiare? Più che cambiare volevamo costruire una nuova alternativa nella quale essere attivi e non passivi. Non ci interessava essere adescati dai media, avevamo bisogno di creare e non di modificare qualcosa di esistente.
Nel 1982 lanciaste sputi contro i Bauhaus, lo rifaresti? Ammetto che anch’io inizialmente mi ero adeguata a questa usanza proveniente dall’Inghilterra, una contaminazione abbastanza scimmiesca derivata dal desiderio di uniformarsi ai punk iniziatori. Al concerto dei Bauhaus però non mi sono unita alla folla sputacchiante, un po’ perché non ero sotto al palco e soprattutto perché ormai era roba del passato. Inoltre bisogna sottolineare che gli sputi erano un segno di approvazione, un dono prezioso del pubblico ai musicisti. Fortunatamente l’usanza è diventata materia di antropologia adesso.
“La voglia di suonare deriva dalla voglia di esprimermi e la musica è un veicolo perfetto per comunicare le nostre idee” (vedi pag. 116 del libro), ma quali sono le idee che volevano esprimere i “punk” bolognesi? Politicamente si trattava di attuare l’unica forma di anarchia possibile nella nostra società e cioè attraverso l’autoproduzione in ogni sua forma per essere protagonisti della propria vita. Anche se bisognava fare i conti coi bisogni reali per la sopravvivenza, non volevamo cedere il nostro tempo libero all’industria del divertimento. La speranza poi era di rendersi autonomi economicamente, cosa nella quale ho fallito.
L’estetica e l’abbigliamento erano una provocazione per rivendicare la propria libertà. È una cosa che fai ancora? L’estetica punk mi piaceva moltissimo e ne ero affascinata al punto di sostenere tutti i problemi che comportava, direi che è stato un approccio istintivo ed emotivo più che ragionato, almeno sulle prime. Io mi piacevo con i capelli dritti, i vestiti zebrati e leopardati, le minigonne e le calze a rete, era tutto così sexy e attraente! Il contrasto tra la provocazione estetica e i segni del tempo mi danno la percezione di uno stridio nei confronti della bellezza, pertanto ho uno stile più casual e meno vistoso del passato. In fondo sento che non ho più bisogno di farmi accettare da un gruppo, mi basta un badge o un giubbotto per lanciare un messaggio e poi ormai è tutto così rimasticato dall’industria della moda che bisogna sforzarsi di essere davvero eccessivi per non finire tra i trend del momento
Laura Carroli Schiavi nella Città più Libera del Mondo Agenzia x 2022
Articolo del
21/05/2022 -
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