E’ un thriller “un po’ Tarantino un po’ Scorsese” sull’epoca d’oro del rock (identificata con la scena di fine anni 80 di Van Halen, Guns’n Roses e Motley Crue), “E’ solo Rock’n’Roll” pubblicato dai tipi di Arcana. Ma è anche e soprattutto “un (autoironico) atto d’accusa nei confronti del mondo dei promoter musicali”. Un ambiente che l’autore, Andrea Pieroni, conosce a menadito, con i suoi oltre trent’anni di esperienza nell’organizzazione di tour e concerti lavorando per società quali Live Nation e Vertigo, di cui oggi è il CEO.
Come è scattata per te la scintilla per scrivere, tu promoter musicale, un romanzo di fiction? A me è sempre piaciuto scrivere. Non è una cosa arrivata di punto in bianco. Da sempre sono un grande lettore quindi leggo, ho una biblioteca di migliaia di volumi, leggo mediamente un libro a settimana nonostante il mio lavoro mi impegni quasi 24 ore al giorno. In tutta la mia lunga ormai vita –ho 55 anni – ho assimilato tutta una serie di influenze e di letture di vario tipo. Filtrate anche dal cinema, perché il libro è anche molto cinematografico. Perlomeno secondo me. Ha una sua visione cinematografica. Che comunque è un po’ filtrata da quello che mi piace vedere, un po’ Tarantino, un po’ Scorsese, insomma questa roba qua. E lo stesso per quanto riguarda le letture. Ho scritto una storia di quelle che mi piacerebbe leggere. Secondo me libri di questo tipo, romanzi di questo tipo, non se ne trovano molti. O siamo sul giallo, sul thriller, improntato in maniera tradizionale, oppure su libri, su romanzi che parlano di tutt’altro. Però un thriller che abbia una connotazione un po’ grottesca, un po’ comica, un po’ pulp – anche se parola non mi fa impazzire – secondo me non ce ne sono tanti. Era la cosa che mi piaceva scrivere, e durante il lockdown, come tante persone che non avevano niente da fare… Io in particolare, perché come sai il nostro lavoro purtroppo durante la pandemia per legge è stato vietato. Nel senso che noi siamo stati i primi a chiudere il 20 febbraio [2020], ben prima del resto d’Italia, che ha chiuso verso la metà di marzo. Noi il 20 di febbraio avevamo già finito di fare i concerti. E abbiamo riaperto a maggio del 2022. Quindi siamo stati due anni e tre mesi, letteralmente senza fare niente. Quindi ho avuto un sacco di tempo libero e in qualche maniera lo dovevo utilizzare. E l’ho utilizzato mettendomi a scrivere quello che volevo leggere. Riprendendo un po’ di appunti che avevo da parte, dato che durante gli anni un po’ di cose avevo scritto, dando forma a tutto questo… e nel giro di 6 mesi ho scritto questo romanzo.
Quanto di autobiografico c’è in questo romanzo? Il personaggio protagonista (Raul) l’ho volutamente scritto, creato, in maniera molto estrema. Molto esagerata. Perché volevo creare questo personaggio che dall’interno criticasse, anche, il suo mondo, il mondo in cui lavora.
E in cui lavori anche tu. Dove lavoro anche io. Che però è una critica ma fino a un certo punto, perché poi alla fine lui [quel mondo] lo ama. E’ chiaro che tutti noi che facciamo questo lavoro, io e anche i miei colleghi, siamo accomunati da una visione di un certo tipo. Perché poi, dopo, quando questo lavoro lo fai, non è più una passione ma diventa un lavoro. Quindi certi schemi mentali, certe procedure, che ti portano a fare le scelte lavorative, cambiano… in tutti quelli che sono poi i risultati economici del concerto stesso, o del tour. Quindi chiaramente ci sono un po’ di situazioni che vagamente – molto vagamente – possono essere riportate… non direi autobiografiche, ma proprie di quello che è il nostro mondo. Il mondo dei promoter, della musica e dello show business. Tutti noi abbiamo un certo tipo di visione. E ho voluto un po’ riportare quella visione lì, estremizzandola, ovviamente, romanzandola, esagerandola. Lì ci sono situazioni che sono… troppo esagerate [ride, ndr] per essere vere. Però a me piaceva metterle giù così, perché secondo me potevano avere un risvolto anche comico. Per quelli che hanno letto il romanzo e mi hanno detto le loro impressioni, alla fine è la cosa che a loro è piaciuta.
Il modo in cui la pensa Raul sulla musica, la sua passione per lo street rock degli anni 80… è anche il tuo? Quello è autobiografico. Io ovviamente sono nato (musicalmente parlando) in quel periodo lì, è il periodo in cui mi sono formato, ed erano i gruppi della mia gioventù. Quindi i gruppi che ascoltavo, era quella la roba che mi piaceva. E quindi, come tutti quelli che ascoltavano quella roba lì, ho molto sofferto poi il passaggio da quella scena a quella grunge, che è iniziata nel 1990 e che ha distrutto completamente quello che c’era prima. Il modo di vivere rock’n’roll che c’era prima, dal ’90 in poi è cambiato completamente.
Questo tu lo pensi veramente? Anche tu come Raul hai un odio sconfinato per Kurt Cobain? No, no… Figurati, io i dischi dei Nirvana ce li ho. Li ho comprati. Anzi, poi lavorativamente parlando, io ho portato in Italia un sacco di gruppi di Seattle. Purtroppo non i Nirvana. Perché io avevo iniziato da poco, ho iniziato nel ’90 a fare questo lavoro. Quindi all’inizio facevo gruppi un po’ più piccoli, nel ’93 Cobain si è sparato e purtroppo non ce l’ho fatta a portarli i Nirvana. Ma tutta una serie di gruppi di Seattle io li ho portati: Tad, Mudhoney, Soundgarden, Alice in Chains… Li ho portati tutti in Italia, quindi figurati. Da un punto di vista lavorativo non ho nessun odio e anzi: ci fosse ancora una scena rock come era quella lì. Purtroppo il grunge è stato l’ultimo grande movimento nel rock. Non ce ne sono altri dopo quello. Il rock che viene proposto oggi è, più o meno, una deriva. O più commerciale… Però non ci sono più stati grossi movimenti, com’era stato il punk negli anni 70 o il rock’n’roll stradaiolo, hair metal se vuoi, negli anni 80, o come il grunge. Da lì in poi non c’è più stato un movimento rock. Poi, da un punto di vista musicale, i miei gusti personali sono quelli: a me erano quegli artisti che mi piacevano. Ma l’odio: è il personaggio. Non sono io. Non confondiamo.
Emerge nel libro anche un amore spassionato per la Los Angeles di quel periodo. Sono autobiografici quei passaggi, giusto? Nella parte di Los Angeles c’è ovviamente molto di autobiografico – non le scene che sono descritte, quelle sono totalmente inventate – ma per quanto riguarda gli ambienti ce ne sono molte di vere. C’è per esempio un passaggio in cui Raul si trova al Rainbow, in bagno, tra Nikki Six e Lemmy. E sono tutti e tre a pisciare insieme. Ecco, quella è una scena vera che è effettivamente successa a me.
Ma hai visto anche Lemmy giocare compulsivamente alle slot machine? Sì, assolutamente. Io sono stato a Los Angeles in quegli anni lì, per tanto tempo, perché negli anni 80 avevo anch’io una band e sognavo come tutti quelli che avevano una band di quel tipo lì, e quindi ovviamente sono andato lì in quel periodo pensando di poter fare chissà cosa. In realtà non ho fatto nulla, però sono entrato in contatto con quel mondo lì, con quel mondo glamour. Ho iniziato a conoscere un po’ di manager, di artisti, di promoter. Tutta una serie di personaggi che poi dopo, una volta che sono tornato in Italia, mi sono tornati utili per iniziare a fare quello che poi è diventato il mio lavoro. Quindi sì, c’è molto di autobiografico. Quantomeno da un punto di vista strutturale. Poi per quanto riguarda le scene, le feste… quello no. Quelle sono tutte inventate.
E per quanto riguarda Barcellona, la città in cui Raul vive e opera? Come mai questa scelta? E’ una città che ho conosciuto non da giovanissimo. Cioè, ci sono andato da ventenne ma non l’avevo vissuta nella maniera giusta. E poi era ancora prima delle Olimpiadi, per cui la città era davvero differente rispetto a come è diventata dopo. Poi ci sono tornato dopo più di 20 anni e ho trovato una città completamente diversa. Molto più elegante, molto più bella. Con la spiaggia che prima non esisteva. Ovvero: il mare c’era, ma prima non c’era niente, c’erano delle fabbriche ma non c’era l’accesso al mare. Quella parte della città è stata completamente trasformata a seguito delle Olimpiadi. E ora è un posto fighissimo. Se ci vai ti puoi fare una passeggiata di 10 km dove c’è gente che fa sport, che fa surf in spiaggia… Veramente un posto figo. E quindi ho pensato di ambientare il romanzo in quella città lì, anche per non dare eventuali punti di riferimento o scuse a qualcuno del mio ambiente che avrebbe potuto dire: ah cazzo l’hai ambientata a Milano quindi “quello” sono io, stai parlando male di me. Quindi l’ho ambientato tutto da un’altra parte, così nessuno dice niente. Perché le critiche più forti non sono al grunge, ai Nirvana ecc, ma sono proprio autocritiche al mio mondo.
Anche queste critiche sono esagerate? Perché a tratti sono molto forti. Tu descrivi un mondo moralmente abbietto, a tratti. Ovviamente si tratta di un’estremizzazione da parte del personaggio. Ovviamente non è realmente così. Però devo dire che in Italia una grossa professionalità nel nostro lavoro si è raggiunta solo negli ultimi 25 anni. Fino a tutti gli anni 80, nella maggior parte dei casi, l’Italia era vista dagli addetti internazionali come un paese da evitare come la peste, per le tournèe. Inaffidabile. Dove c’era poca professionalità. Dove i soggetti che operavano in questo business erano visti come dei traffichini, gente senza scrupoli che ne combinava di cotte e di crude. Fino alla fine degli anni 80 ce ne sono stati di personaggi quantomeno un po’ dubbi. C’è stato tutto un periodo negli anni 70 in cui non ci sono stati proprio concerti. Gli artisti non venivano. Io mi ricordo il primo concerto che ho visto da 12enne è stato Patti Smith allo stadio di Firenze nel ’79. Ma dal ’72 al ’79 non c’era stato niente. L’Italia era stata messa al bando. C’erano solo gli artisti italiani che andavano in giro. Di artisti internazionali non veniva nessuno. Nel ’79 le cose sono ricominciate, ma anche lì per una decina d’anni c’è stato quantomeno molta diffidenza da parte degli agenti inglesi e americani nel mandare le tournèe in Italia. Poi negli anni 90, quando c’è stato il cambio generazionale, di nuove persone che sono entrate nel nostro business, allora lì si è raggiunta una nuova professionalità, un nuovo modo di intendere questo lavoro. E oggi devo dire che l’Italia - mi sento di dire anche perché io gestisco il tour mondiale di Ramazzotti quindi vado in giro per il mondo e vedo a livello organizzativo come sono messe le cose negli altri paesi – non ho paura di affermare che in questo momento l’Italia è sicuramente sul podio, è una delle prime tre nazioni in cui i concerti vengono fatti meglio, dove vengono rispettate tutte le norme, in cui si lavora veramente meglio in assoluto. Oggi il nostro mondo è veramente al top. Chiaramente il personaggio si riferisce al mondo degli anni 80, quando la situazione era differente.
Nel libro hai scritto però che oggi è diventato più difficile fare il promoter. Nel senso che su 10 progetti uno va bene e nove vanno buca. E’ vero questo? E’ vero ma non perché ci sia meno risposta da parte del pubblico. Il pubblico in Italia, più o meno, a livello numerico per quanto riguarda i concerti, è sempre lo stesso. Più o meno da sempre. Non è che varia, non è che ci siano grosse variazioni in più o in meno. Quello che è variato rispetto agli anni 80 è il numero di concerti. Cioè, l’offerta oggi è 10 volte superiore alla domanda di concerti. Per cui è naturale che quando l’offerta è così sovradimensionata, il pubblico si trova a dover scegliere. E quando si trova a dover scegliere, ovviamente, ci sono tutta una serie di artisti che soffrono. Nella maggior parte dei casi si tratta di artisti di taglio medio-piccolo. La gente ovviamente sceglie sempre di andare a vedere gli artisti più grossi, i grossi concerti da stadio o i grossi festival open air. Quindi il mondo dei grandi eventi serve a sostenere economicamente i piccoli artisti. Che poi, un giorno, magari saranno quelli grandi. Anche a livello artistico ci sarà un ricambio generazionale. Non è che per sempre dureranno gli AC/DC, gli Aerosmith, i Guns’n Roses o gli Iron Maiden. Hanno 70 anni, quindi prima o poi dovranno smettere. O per forza o no, ma dovranno smettere.
Tu hai organizzato un sacco di questi grandi artisti. Ho notato però che di recente hai diversificato con nuovi artisti quali Ermal Meta, Coma Cose, eccetera. Con gli italiani ho iniziato a lavorare non da tantissimo tempo. Io comunque nasco come promoter di artisti internazionali, perché comunque la mia cultura musicale è quella. Chiaramente, quando ti trovi a doverlo fare per lavoro, ma le tue scelte vanno sempre su quello che più o meno conosci, che pensi che possa avere un riscontro a livello numerico anche in Italia. Poi da 15-20 anni a questa parte mi sono messo a lavorare anche con gli artisti italiani. Cercando però sempre di mantenere uno stile qualitativo che perlomeno si avvicinasse a quella che è la mia cultura musicale. Avere dei musicisti veri, che sappiano suonare, che sappiano comporre, non uno che si limitare a stare lì col computer a campionare delle basi e a metterci sopra quattro parole messe a caso. Quei tipi di artisti lì, nel mio roster non li vedrai mai. Ma non per presunzione. Proprio perché io non li capisco, non li sento, non li vedo. E quindi, probabilmente sbaglierei anche a collocarli in determinati contesti lavorativi. Per cui, anche dal punto di vista italiano, cerco di avere una visione che punti prima alla musica e poi a tutto il resto.
Per tornare a Raul, quanto in questa tua professione è oggi passione e quanto meramente “lavoro?” Se tu mi chiedi quando faccio un concerto – tutti i giorni, praticamente, anche più di uno al giorno – se mi fermo lì a guardare il concerto, la risposta è no. Nel senso che posso guardarlo per 5, 10 minuti, ma poi è una cosa che mi annoia, perché ne ho visti talmente tanti in vita mia che non ce la faccio più. Un poco come il pasticciere, che fa i dolci tutto il giorno e poi non è che la sera torna a casa e si mangia un pezzo di torta. Non lo fa. Però ecco, quello che io metto in piedi – i festival, gli artisti che porto in Italia – tutto questo qua è influenzato dall’amore per la musica. Perché comunque gli artisti che porti sono comunque artisti con cui hai un legame in qualche maniera. Probabilmente non ti metti a guardare il concerto, però in qualche maniera la tua passione viene fuori quando tu porti in Italia questi artisti. Perché altrimenti sennò non lo faresti. Cioè, questo non è un lavoro che puoi fare soltanto per i soldi. Se lo fai soltanto per i soldi hai sbagliato. Intanto perché ci sono lavori con cui guadagni molti più soldi di questo. Perché questo è un lavoro ad alto rischio. Quello che guadagni in un giorno lo puoi perdere davvero in un minuto. E’ troppo rischioso perché tu possa pensare di prenderla soltanto da un punto di vista economico. Per quanto riguarda la passione, l’amore per la musica, è sempre predominante. Poi è chiaro che alla fine dell’anno i conti devono tornare. Perché se i conti non tornano, le cose non stanno in piedi. Quindi a volte sei costretto a fare delle scelte contro la tua volontà, perché magari vorresti portare un determinato artista in Italia, ma a livello economico non ti senti che quella cosa possa essere un affare giusto per te. E quindi magari devi rinunciare. Oppure altre volte pensi che lo sia, e invece arrivi alla fine e ti prendi una bastonata incredibile. Però ecco, per farla breve per quanto mi riguarda la passione è sempre predominante.
Negli ultimi 5 anni qual è il tour che ti ha dato il massimo godimento a livello di passione? Ci sono tanti artisti che mi hanno dato soddisfazione. Uno su tutti, David Gilmour. Fare Gilmour all’Arena di Verona e al Circo massimo a Roma e a Piazza Santa Croce a Firenze è stata una cosa veramente importante. Ti senti che sei al cospetto di una leggenda. Poi la leggenda la metti a suonare in posti altrettanto leggendari, ed ecco che si crea una magia, da un punto di vista emozionale molto intensa. Poi ho un grandissimo rapporto con gli Iron Maiden che è una band che io porto in Italia da decenni – da fine anni 90 – una band con cui siamo invecchiati insieme… Pur se dal punto di vista mio, di gusto personale, non sono la mia band preferita. Però ho sempre trovato in loro un tipo di approccio incredibile e unico alla musica. Devo dire che loro a livello personale sono proprio dei gentlemen in tutto e per tutto. Ho un grande rapporto con loro e sono una band a cui sono molto legato. Poi, da un punto di vista che può sembrare strano detto da me – ma da un punto di vista di soddisfazione personale, non solo economico, emozionale – anche il tour di Eros Ramazzotti che ho fatto in giro per il mondo, è una cosa molto importante che mi ha dato grosse soddisfazioni. Perché comunque un tour di questo tipo – abbiamo fatto 92 date nel 2019 – suonando in arene e riempiendo ovunque, da Tel Aviv a Toronto a Monaco di Baviera a Buenos Aires a New York eccetera – vendendo più di 800.000 biglietti in tutto il mondo, è stata una cosa veramente bella e anche che ci riempie d’orgoglio. Perché che una cosa del genere sia partita dall’Italia, fatta con una produzione italiana, un’agenzia italiana, tutto il personale italiano, secondo me è una cosa bella. Che nessun altro l’ha fatto e che sia stato io a farlo.
E’ un libro intriso di nostalgia. Ma il futuro come lo vedi invece? Intanto penso che il rock non morirà mai. E’ il genere più longevo di tutti. Basta pensare da quanti decenni dura e quanti altri movimenti sono iniziati e finiti nell’arco di qualche anno e alcuni di pochi mesi. Dal punto di vista della longevità non vedo problemi: il rock’n’roll ci sarà sempre. Dipende che tipo di rock’n’roll. Vediamo come le nuove band si trasformeranno e daranno vita alla nuova musica del futuro. Io però da quel punto di vista non sono preoccupato. Non la penso come Gene Simmons, che dice che il rock è morto e che non tornerà mai più. Per me il rock è vivo e vegeto, semplicemente è stato messo fuori legge dai mass media. In questo momento si parla solamente di rap, di trap, di questa roba qua, e il rock è fuorilegge. Però se poi dopo andiamo a vedere nei concerti chi fa i numeri, sono gli artisti rock. Gli stadi vengono riempiti dagli artisti rock, e quindi… Vuol dire che gli artisti esistono e che il pubblico esiste. E’ il mercato alla fine che decide. La mia visione da questo punto di vista è ottimistica.
La risposta del pubblico ai concerti post-pandemia mi pare sia stata molto positiva. Sì, ti ripeto, per quanto riguarda gli artisti grossi, quelli da stadio, è stata assolutamente una grossa risposta, probabilmente anche migliore di quella che era prima della pandemia. Però ovviamente gli artisti medio-piccoli hanno un po’ sofferto. Da inizio giugno a metà luglio abbiamo avuto un numero di concerti in Italia che io francamente in 32 anni di carriera non mi ricordavo. Quando concentri tutta questa roba in così poco tempo, poi ovviamente i concerti piccoli un po’ soffrono. Però questo c’era da aspettarselo, perché dopo due anni e mezzo di fermo totale era abbastanza normale che sarebbe andata così. Almeno per quel che mi riguarda, non è un risultato inaspettato. Secondo me ci dovrà essere ancora un po’ di tempo, probabilmente un altro annetto per rimettere la macchina a regime.
Hai intenzione di far diventare questo libro un film, dato il suo taglio cinematografico? Sì, un po’ ce l’ho quell’idea lì, di farlo diventare un film o una serie. Ne voglio parlare con qualcuno che si occupa di queste cose qua. Poi vediamo un po’. Magari, se a qualcuno piace, ci potrebbe essere qualche sorpresa carina.
Articolo del
06/02/2023 -
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