“La grande notte” è l’esordio discografico dello scrittore, autore e chitarrista fiorentino Michele Mingrone. Il chitarrista degli Scaramouche ha realizzato un album con 12 canzoni tra rock, western e folk. Un cantautorato immaginario con testi tra il sarcasmo e l'accusa sociale. “La grande notte” è quella che stiamo vivendo ormai da anni, con poche sfumature e qualche raro lampo di luce. Misteri d’Italia mai risolti, gestioni catastrofiche di costanti emergenze, il soffiare mediatico sul fuoco di sempre nuove paure, la superficialità diffusa nei vecchi e nuovi mezzi di propaganda di massa rendono questo periodo storico uno dei più pericolosi per l’umanità. Un concetto ben rappresentato dalla copertina di Valentina Mincolelli e Martina Forni che rappresenta una figura bendata, forse la giustizia, che urla mentre la benda viene colpita da un forte raggio di luce. Ecco come Michele ci parla del suo primo disco
Piacere Michele, raccontaci pure chi sei, da dove vieni e com'è nato il tuo progetto? Ciao! Sono nato a Firenze un bel po’ di tempo fa, da padre calabrese e madre slovena. Un discreto melting pot di culture differenti. Sono autore, copywriter, chitarrista e compositore, appassionato di storia e di storie. Negli anni ho pubblicato una manciata di dischi e libri, tra cui “Scaramouche” con la band omonima, nel 2006 con la EMI, un omaggio alla cantante folk siciliana Rosa Balistreri (“Rabbia Rosa”, con Materiali Sonori) e tre semiserie guide turistiche immaginarie che hanno avuto un ottimo riscontro, “I luoghi di Lovecraft”, “Vampiri dove trovarli” e “Animali fantastici e come mangiarli”, pubblicate da NPE Edizioni e realizzate con il collettivo Imaginary Travel Ltd.
Il tuo disco “La grande notte” ci ha colpito particolarmente, com'è nato il tutto? Non volevo fare un disco, non ci pensavo nemmeno. Non scrivevo una canzone da dieci anni. Se devo dire in due parole come l’ho percepita direi che qualcuno si è insediato nel mio cervello e, mentre facevo altre cose, ha lavorato in background. A un certo punto sono entrato in una specie di delirio compositivo durato una decina di giorni. Ne sono uscito con queste canzoni già praticamente complete di testi e accordi… e praticamente nessun’altra idea in mente. Una cosa così non mi era mai successa. Ritrovandomi con 11 canzoni pronte, mi è sembrato inevitabile farne qualcosa. Ho conosciuto Don Antonio (già con Sacri Cuori, Calexico, John Parish e molti altri), di cui apprezzavo già il lavoro da tempo, e ho scoperto che aveva uno studio a Brisighella, in un casolare antico sulle colline. Ho sentito che era il posto giusto per realizzare la mia idea e gli ho scritto. Il progetto gli è piaciuto e ha accettato di aiutarmi nella direzione artistica, oltre a mettere le sue splendide chitarre nel disco. A questo punto sono stati imbarcati gli altri musicisti: Diego Sapignoli (batterista, tra gli altri con Vinicio Capossela e Sacri Cuori), Fabio “Phomea” Pocci al basso e Francesco Fry Moneti (violinista dei Modena City Ramblers)
Come nasce e si sviluppa il tuo processo creativo e di composizione? Non ne ho uno, in realtà. In effetti non ci ho capito un accidente. Posso solo citare (immodestamente) gente come Salman Rushdie, Tori Amos e Stephen King: secondo loro, in certi momenti della vita di una persona, si riesce ad attingere a un canale particolare, una sorta di luogo dove “esistono le storie”, e portarne a galla qualcuna. Rushdie lo chiama “Il Mar delle Storie”. Per la prima volta da quando scrivo, ho avuto la sensazione di “ricevere” queste canzoni, più che di comporle… ed è stato bellissimo
Quali sono state le tue influenze principali? Lo shock principale che ha attivato il processo è la frase “Chi illumina la grande notte”, titolo dell’ultimo film mai realizzato del grande Elio Petri, un regista che ha raccontato spietatamente il lato oscuro dell’Italia degli anni ‘70. Nel disco ci sono riferimenti a Peppino Impastato, ma anche al cinema di Sordi, Mastroianni e dei Giancattivi, accenni letterari a Melville, Verga e Stephen King e tanto altro. Musicalmente il primo amore è stata la colonna sonora di “Per qualche dollaro in più” di Morricone. Da lì ho proseguito,immergendomi in mondi piuttosto cupi: citerò in ordine sparso Nick Cave, Tom Waits, PJ Harvey, Swans, PIL, Velvet Underground, The Cure e, su tutti, David Bowie. Per quanto riguarda l’Italia, mi sono formato, tra gli altri, con la musica di Enrico Ruggeri, Faust’O, Flavio Giurato, Andrea Chimenti, CCCP/CSI, De André, Rettore
Con chi ti piacerebbe collaborare? Mi spingi a fare sogni a occhi aperti… così, su due piedi, ti dico che vorrei duettare con Enrico Ruggeri, comporre una canzone a quattro mani con Carmen Consoli e fare un disco con le tastiere di Antonio Aiazzi, il basso di Gianni Maroccolo e le chitarre di Marc Ribot. Aggiungo anche Sarah Stride, una cantautrice di valore assoluto che seguo dal 2017
Com'è nata la tua collaborazion con VREC? Ho mandato una mail all’1 e 35 di notte a David Bonato di Vrec, citando in qualche modo il disco “All’una e trentacinque circa” di Capossela. Incredibilmente, era sveglio e l’ha letta subito. Era la prima casa discografica a cui mi proponevo: gli ho scritto perché hanno tra i loro artisti Andrea Chimenti, che seguo da anni. Il mio progetto gli è piaciuto subito e… beh, siamo qui
Quali sono i tuoi progetti futuri? Proporre “La grande notte” dal vivo in giro per l’Italia e pubblicare la quarta guida turistica immaginaria per NPE, stavolta dedicata ai luoghi di Stephen King. Per il momento le priorità sono queste, e già mi sembrano più che sufficienti. Quando lavoro in ambiti creativi mi sento un bambino che gioca… nel senso che il gioco, per un bambino, è la cosa più seria del mondo. Per questo, ho deciso di lavorare solo a una, massimo due cose per volta: per farle bene, seriamente e con tutto l’amore che meritano
Articolo del
19/04/2023 -
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