È decisamente un disco di arrivo, di maturità, di sostanza. Francesco Verrone pubblica “Legna per l’inverno”. Un nuovo disco che dentro culla canzoni credibili fatte da una voce liquida e sottile, piena di significati e di parole buone, ci trovo una canzone che bada moltissimo al suono acustico delle melodie “main stream” senza soluzioni che svendano il tutto. E l’elettricità non manca, non manca la distopia, non mancano visioni di un futuro di luce che si erge dentro un presente di cenere. Verrone fa centro, quando parla dell’amore, della vita, di tutti noi.
Secondo me è un disco di distanze. Distanze interiori. Distanze che forse non è necessario e salvifico colmare. Che ne pensi? Implicitamente quello del viaggio, tema centrale dell’album, si porta appresso anche considerazioni sulle distanze, in particolare da luoghi e persone nei quali troviamo conforto. La verità è, come diceva Terzani, che al giorno d’oggi ci inventiamo di tutto per sconfiggere il dolore, per estirparlo a ogni costo da noi quasi non fosse parte integrante dell’umana condizione. Penso che fare i conti con la solitudine, imparare a conviverci, sia un grande esercizio di vita.
“Copenaghen” fa incontrare l’essenza razionale con quella emotiva. Una lotta impari. Chi vince secondo te? Nessuna delle due, sono due asini legati alla stessa corda e che la tirano in due direzioni opposte. Perché questo amore stia sempre sull’attenti occorre ora un po’ di testa, ora un po’ di cuore. Due organi ciascuno dei quali tanto necessario all’altro quanto non sufficiente di per se stesso.
Qui cerchi di colmarla questa distanza… ma la ragione a volte aiuta? Per quanto mi possa riguardare, direi di sì.
L’impianto sonoro del disco è assai romantico e allo stesso tempo lo trovo molto sospeso, quasi post-rock per alcuni versi. La sospensione mi piace… l’hai scelta apposta, come la copertina del disco? Insieme a Dario di Pietro, che ha curato la produzione artistica dell’album, abbiamo ricercato per i brani una veste sonora che assecondasse la rarefazione delle liriche e dei temi annessi. Avevamo a che fare con ricordi di posti lontani, instabili, non concreti. Li abbiamo tradotti in musica lavorando su sfondi di chitarre elettriche riverberate che dessero grande respiro all’ascolto. Quando poi mi sono imbattuto negli scatti di Laura Zimmerman, per loro natura sfuggenti poiché privi di contorni definiti, ho trovato che si abbinassero perfettamente alle canzoni, che le potessero raccontare davvero con grande giustezza.
Ecco parliamo di Laura Zimmerman, cognome d’arte assai importante direi… Credo che in un certo senso chiunque aspiri a scrivere un brano discenda da Dylan. Mi piace anche notare che “zimmermann” è il vocabolo tedesco per “carpentiere”, mestiere che mi ha sempre affascinato per la sua capacità di mettere insieme semilavorati informi e trasformarli in una casa da abitare. Tra cantautori si dice che un primo accenno di canzone, quel bel giro di accordi su cui scriviamo alcune parole che sembrano suonarci bene, sia “un bel pezzo di legno”. Da intagliare, si intende, e trasformare in bellezza alla maniera del carpentiere. Mi sembra un buon modo di chiudere questo cerchio di immagini.
Articolo del
14/05/2024 -
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