Capita che tre giovani cantautori emergenti della scena “indie” si esibiscano – tutti in una sera – al Circolo degli Artisti di Roma, e, trattandosi di una situazione che fa tanto “Sanremo Giovani”, decidiamo di trascinare all’evento un nutrito gruppuscolo di amici e conoscenti musicalmente dotti, per costituire una sorta di severissima “giuria” con il compito di emanare pareri e personali apprezzamenti, con tanto di votazione finale. Benché i nomi non siano garanzia di enorme richiamo, di pubblico già ce n’è abbastanza quando alle dieci e trenta fa la sua apparizione sul proscenio Guy Blakeslee, in arte Entrance, ventiduenne di Baltimora rilocatosi a New York City e frequentatore di tipi come Cat Power e Devendra Banhart. Guy, che sulla copertina del suo secondo album (primo in Europa) “Wandering Stranger” era pulito e imberbe, si presenta al pubblico capitolino in versione “uomo di Neanderthal”, con talmente tanta peluria addosso che non si riesce neanche ad intuirne la forma del volto. Nonostante l’amplificazione imperfetta, il folk-blues proposto dall’omone solitario ciondolante sul palco con chitarra impugnata da mancino ci regala buone sensazioni. Appare palese che il suo asse di riferimento è Robert Johhson e un po’ tutto il blues acustico-rurale del Delta del Mississippi pre-Seconda Guerra Mondiale; Blakeslee però lo interpreta – in brani con titoli come “Make Me A Pallet On Your Floor” e “Train Is Leaving” - in maniera elettrificata (e non – bada bene - elettrica) e con trasporto, e risulta genuino e convincente anche se possiede una voce non entusiasmante e a tratti eccessivamente lamentosa. Giudizio n.1 del “panel” di esperti convocato all’uopo: un Devendra Banhart più hippieggiante dell’originale ma con radici meglio piantate al suolo e meno incline agli sfarfallamenti. Crescerà (forse, se gli daranno/daremo tempo e modo di farlo). Voto ponderato: 6,5/10. Delude invece il secondo “act” della serata, lo scandinavo di Goteborg Jens Lekman di cui certa stampa ha eccessivamente incensato il recente album “When I Said I Wanted To Be Your Dog” pubblicato per la – solitamente affidabile – label Secretly Canadian. Bel contrasto, peraltro: se Entrance era tutto cuore e spontaneità, Lekman dà dimostrazione di una tecnica sopraffina, mostrandosi però in difetto su quasi tutto il resto. Accompagnato da una finissima band al femminile con tanto di violinista, lo svedese ripercorre il suo catalogo melodico-romantico, tra cui spiccano la bellina “Tram n.7 To Heaven” e “Do You Remember” ispirata agli scontri del G8 di Goteborg (ma “non è una canzone politica”, precisa lui, “è una love song”, e ti pareva). Ha una voce che raggiunge note difficoltose, Lekman, ed una band metronomica; ha anche canzoni, però, che nonostante sapienti rimandi alla visione naif di Jonathan Richman & The Modern Lovers e alla poetica dei cuori spezzati di Belle & Sebastian e Magnetic Fields danno l’impressione di uno che ha studiato, sì, ma forse anche troppo. Spontaneità zero insomma, e mentre le postadolescenti in platea cadevano come pere di fronte allo svedesino tenerone, noi ci siamo spostati al bar a sorseggiare un’insana margarita. Giudizio n.2 dell’implacabile panel: un secchioncione, peraltro penalizzato dalla dimensione “live”, che farebbe meglio a prendere lezioni dai connazionali Abba piuttosto che da Stuart Murdoch dei Belle. Voto: 5/10. Di ben altra pasta (e classe naturale) Micah P. Hinson, il cantautore “noir” di Abilene, Texas, esibitosi, da buon “headliner”, poco dopo la mezzanotte in una formazione da trio classico, chitarra basso batteria. Di Hinson, di primo acchito, si possono dire due cose: che è buffo, con i suoi occhialetti da nerd e il suo aspetto da ragazzetto da “high-school” americana con tanto di cappello da baseball d’ordinanza. E che è “intenso”, intensissimo, nel senso – in fondo – sacchiano del termine. Sorretto da una buona vocalità profonda più matura dei suoi 23 anni, Micah (pronunciato, badate bene, “mai-cah”, e non era così scontato) esegue in rapida successione le ballate autobiografiche del suo affascinante esordio “And The Gospel Of Progress” (tra le migliori: “Close Your Eyes” e il singolo “The Day Texas Sank To The Bottom Of The Sea”), che a momenti ci hanno ricordato il miglior Tom Waits, quello del periodo Elektra. Ha convinto, Hinson, perché le sue ballads fanno perno sulla tradizione “Americana” solo quanto basta, possedendo una propria spiccata torbida personalità, e perché è uno che si mette personalmente in gioco, cosa rara oggidì. Ha convinto, magari, anche perché le margaritas ingurgitate hanno cominciato a fare effetto? Può darsi. Giudizio n.3 del panel ormai barcollante a tarda notte: gran personaggio ed un mucchio di intriganti e belle canzoni, Micah è già un mito. Voto: 8/10. Aldilà dei valori relativi, ci è piaciuta assai l’idea di far esibire tre talenti emergenti in un’unica sera in una sorta di “contest” virtuale”; iniziative come questa, nel confortevole ambito del piccolo club, sono sicuramente da ripetere e moltiplicare. E pensare che c’è ancora gente che predilige i megaconcerti nelle piazze e negli stadi dove non si capisce (e a volte neanche si sente) un fico. De gustibus, come si usa dire…
Articolo del
06/05/2005 -
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