Incontriamo Stefano Landini e Toni Lama, che firmano insieme la regia del documentario Cocktail Bar. Storie jazz di Roma, di note, di amori che sarà proiettato alla Casa del Cinema di Roma il 4 febbraio 2019 alle 17.30. Stefano Landini, regista e montatore, dopo il diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia e numerosi cortometraggi e documentari, esordisce nel 2007 con il lungometraggio 7/8 – Sette Ottavi che racconta le tragiche vicende dei musicisti jazz a Torino tra il 1940 e il ‘43. Realizza, tra l’altro, insieme a Mauro di Flaviano e Federico Greco il documentario di 38 episodi Stanley and Us su Stanley Kubrick, andato in onda su Rai Sat a più riprese dal 2001. Toni Lama nel 2015 firma la regia di Compro Oro, vivere jazz, vivere swing, documentario sullo Swing Club di Torino. Appassionato di jazz, musicista, collaboratore dei maggiori festival jazz europei (Antibes, Nizza, Montreux, Parigi, Avignone) è il fondatore del Festival del Jazz di Alassio. Nel 1983 ha promosso, in collaborazione con la Rai, il primo incontro tra l’Orchestra Sinfonica della Rai e Dizzy Gillespie, all’Auditorium di Torino. Come mai la scelta di dare il titolo Cocktail Bar al vostro documentario sul Music Inn? S.L. Perché purtroppo questa è oggi la destinazione del locale che ha rimpiazzato lo storico Music Inn T.L. Questo documentario fa parte di una quadrilogia dedicata ai locali jazz di quell’epoca: Roma, Torino, Bologna e Milano. Per ora abbiamo girato a Roma con Cocktail Bar e a Torino con Compro Oro, così chiamato perché lo Swing Club - che corrisponde un po’ al Music Inn di Roma, o al Capolinea di Milano e ad altri locali che hanno fatto la storia del jazz nelle singole città - purtroppo oggi è diventato un negozietto di “Compro oro”. Quindi la chiave di tutto questo progetto è quella di cercare di comporre un affresco generale che testimoni, senza nostalgia, un periodo che non c’è più. S.L. Anche se è davvero una cosa tristissima la trasformazione di questi luoghi che hanno fatto la storia del jazz. Immagina che pochi giorni prima della presentazione del film alla Festa del Cinema di Roma, il cocktail bar che aveva sostituito lo storico Music Inn e che tentava di conservarne la memoria con una targa, è stato chiuso e la targa è stata rimossa. Ora c’è un locale che si chiama, pensa un po’, La fine
Come è nato questo progetto? T.L. L’idea di fare altri due documentari, oltre a Compro Oro e a Cocktail Bar, è nata perché ci sembrava giusto ricostruire una sorta di memoria di un periodo in cui il jazz in Italia è stato davvero importante. Oggi è un genere musicale che diamo per scontato: ovunque trovi locali jazz e ormai è generalmente diffuso. C’è stato invece un passato in cui il jazz apparteneva a pochi pionieri. Sono stati scritti parecchi libri sull’argomento ma ancora non era stato girato nessun documentario che avesse tentato di ricostruire gli anni che furono. Quando abbiamo contattato i musicisti perché partecipassero alle riprese di Cocktail Bar (tra cui Rava, Tommaso, Gatto) hanno risposto subito con grande entusiasmo. Abbiamo cercato di intervistare i personaggi che hanno vissuto quella realtà in modo radicale. A Torino, per esempio, Piero Angela e Enrico Rava non potevano mancare per raccontare lo Swing Club, così come a Roma Roberto Gatto, che addirittura dichiara di aver imparato a suonare proprio al Music Inn. O Pupi Avati che si definisce “un jazzista” fallito< S.L. Ho iniziato a girare le mie prime interviste ad alcuni personaggi del jazz già nel 2014, qualcuno oggi non c’è più. Poi ho incontrato Toni e mi sono reso conto che c’era già stato chi aveva fatto qualcosa di molto simile a quello che stavo facendo io. Ho visto questo bel documentario, Compro Oro, e mi ricordo che mi commosse il finale… L’incontro con Toni, piemontese doc ma tifoso della Roma, con l’animo di un ragazzino entusiasta e innamoratissimo del jazz, è stato come un colpo di fulmine
Quali somiglianze e differenze tra i due documentari? T.L. Una caratteristica comune è che entrambi raccontano come fossero le città di quell’epoca: Torino era in pieno sviluppo industriale; Avati dice che quando la gente scendeva le scalette dello Swing Club si trasformava, sentiva come di immergersi in un’isola incredibile che permetteva di lasciare sospese tutte le brutture fuori da quel mondo. Inoltre mostrano due realtà abbastanza diverse tra loro: a Torino molti dei protagonisti jazz di allora si sono poi dedicati ad altre attività, chi alla regia, chi al giornalismo, chi alla magistratura, mentre a Roma quasi tutti erano musicisti professionisti S.L. Quello che avevano Roma e il Music Inn in quegli anni (dall’inizio degli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta, un’epoca pazzesca) non ce l’aveva nessun’altra città. Si usciva dalla Dolce Vita attraverso la contestazione del Sessantotto, Valle Giulia e, rispetto a Torino o a Milano, si viveva un’atmosfera diversa. Roma, turismo e arte a parte, era bellissima, colorata, vivace, piena di iniziative e quando uscivi dal Music Inn ci si immergeva in un mondo da favola. In più c’era il fatto che gli eventi culturali erano gestiti da personaggi davvero speciali, che avrebbero portato a figure come Nicolini; Pepito Pignatelli(n.d.r. fondatore del Music Inn) era un vero e proprio principe che si dedicava al jazz per passione, non per soldi e questo generava un’atmosfera che, unita alla bellezza di Roma, metteva in condizione i musicisti di non andarsene più. Pepito era un incantatore di serpenti: pensa che appena seppe che Mingus sarebbe venuto a Roma per registrare le musiche di Todo Modo, il film di Petri, riuscì a convincerlo a suonare al Music Inn per tre serate di seguito probabilmente senza dargli un solo centesimo. Per non parlare della sua straordinaria storia d’amore con la bellissima Picchi, di cui non vi svelo il triste finale, che rese tutto questo molto diverso da altre vicende e atmosfere
In più punti del documentario, gli intervistati parlano del Music Inn come di un luogo in cui si riunivano persone di ogni genere, appartenenti a classi sociali diverse. Quindi il jazz, come dice anche Rava, metteva insieme un po’ tutti, “delinquenti”, avventori, nobili. Il documentario mi sembra insista molto su questo azzeramento delle differenze di classe… T.L. Il jazz ha avuto un suo percorso che è andato evolvendosi e trasformandosi quasi subito. Va dal gospel alle Orchestre… non è che fossero tutti come Billie Holiday S.L. In Italia non c’era nulla di paragonabile al mondo dei principi, dei Pignatelli, dei Torlonia, dei Colonna. Però l’aspetto ‘democratico’ di riunire tutte le classi senza barriere sociali o geografiche, tipico di Roma, era davvero forte in quegli anni, ed era forte in Pepito Pignatelli e sua moglie Picchi, personaggi fuori dall’ordinario
Cocktail Bar ha il merito di mescolare frammenti di storia insieme a una narrazione per sentimenti dei tempi che furono. Il carattere del font che avete utilizzato per i titoli di testa…immagino non sia casuale S.L. Beh no infatti. E’ quello del Music Inn, quello che era stampato sulla tessera che ho qui in tasca e che, almeno quello, non è mai cambiato. Non vedremo mai più quella tesserina e questo è molto triste. Un’altra cosa che volevo dire e a cui tengo molto è che noi siamo riusciti a girare, proprio dentro al Music Inn, quando già era diventato un cocktail bar, proprio per cercare di cogliere quell’atmosfera, stimolando chi fu protagonista su questo stesso palco. Credo abbia funzionato: la lacrima e l’emozione erano sempre in agguato…
Volevo farvi una domanda sul linguaggio utilizzato nel montare le immagini: questo racconto corale, a più voci che si incalzano, si sovrappongono, si ripetono, dove la reiterazione sembra essere un po’ come “il tema” musicale che ritorna, ricorda il fraseggio jazzistico e gli dà un certo ritmo. Immagino non sia casuale S.L. E’ assolutamente così. Ho voluto montare le immagini come fosse un pezzo bebop. Sì, penso di poter dire che il mio è stato un montaggio bebop. Sai che c’è una struttura ben precisa: mi viene in mente uno dei più grandi autori, Horace Silver, con il suo Nica’s dream. Questo pezzo ha un’intro, poi un tema che è suonato dalla tromba, poi l’assolo di piano, del basso, della batteria e poi il corale. Ed è tutto storto, nel senso che segue una scala particolare. Dopo il tema, parte per primo un assolo di piano, che è strano perché nel jazz spesso iniziano a suonare sempre prima i fiati. Invece qui parte prima l’assolo di Horace. Ho seguito la stessa struttura nel nostro documentario: c’è un’intro dove ci sono tanti personaggi che dicono qualcosa, e poi ci sono tutte le altre voci alternate, prima scatenate poi con momenti tristi o lenti. Le stesse cose vengono dette con strumenti diversi: io ho semplicemente sostituito alla tromba, al piano, al contrabasso, al sassofono e alla batteria le voci delle persone intervistate. Quindi non ho fatto un documentario, ho fatto un album jazz con pezzi beebop e ballad [ride]
Il jazz è tra i generi musicali più vivi e capaci di trasformarsi. Una trasformazione che tocca un po’ tutti i suoi ambiti poiché è profondamente legato ai luoghi metropolitani in cui si sviluppa, che cambiano, così come i mezzi con cui si diffonde, pensiamo al digitale. Come si evolverà secondo voi questo genere musicale? Che destino per il jazz? T.L Il jazz, a mio parere, ha due caratteristiche: è una forma d’arte che ha avuto la sua nascita e il suo massimo splendore nell’arco di un secolo e chi ha vissuto la fine degli anni Sessanta, Settanta è come se avesse visto passare contemporaneamente Michelangelo, Van Gogh e Giotto. La seconda caratteristica è quella che lo vede come una forma d’arte che ha influenzato profondamente e trasversalmente tutte le altre: Kerouac, Fitzgerald… il cinema, persino Walt Disney. Tutti sono stati profondamente influenzati dal jazz. Non ultimo, ha segnato delle linee di pensiero anche “rivoluzionarie”, ha favorito un certo tipo di opposizione (se pensiamo a Davies nel suo periodo parigino o alle diverse posizioni tra Roach e Shepp sul razzismo). Molti sostengono che il jazz sia finito. Forse è vero...quello dei Parker, Davies, Mingus forse sì, perché non ce ne sono stati più altri come loro. Poi molti si sono poi diretti verso l’elettro o il genere brasiliano. Gato Barbieri, per esempio, pur essendo un coltraniano, ha poi cercato la sua strada. Sì, è sicuramente finito il jazz di una certa epoca S.L. Io penso invece che il jazz per fortuna non muoia. Tra le arti è quella meno a rischio. Forse il cinema lo è di più, ma poi alla fine anche il cinema si evolve: arriva Netflix e cambia il modo di produzione. Il jazz avrà sempre degli estimatori che forse invece di comprarsi il cd in un negozio che non esiste più cambierà i suoi media di ascolto. Io preferisco i vinili ma ascolto musica anche su piattaforme come Spotyfy, Deezer, o tutte quelle nuove ondemand. Cambia il supporto ma non cambia il fatto che il jazz avrà sempre una sua platea di affezionatissimi che, per fortuna, useranno delle modalità più consone alla loro generazione. Ascolteranno lì Miles Davis di Kind of Blue e gli stessi album che si sarebbero acquistati quaranta o cinquant’anni fa su vinile
Un’ultima domanda: sarebbe possibile oggi girare un film con un’operazione simile a quella fatta per Cocktail Bar? S.L. No. Perché Cocktail Bar, Compro Oro raccontano un’epoca oltre che la storia di un locale. Insieme al Music Inn non c’è più nemmeno Roma di quegli anni, almeno in parte. Quell’ atmosfera lì, in cui veramente si credeva in qualcosa, si percepiva la fucina, la possibilità di un sogno - lo dicono sia Pupi Avati che Renzo Arbore e Antonello Salis – a Milano e a Torino, dove c’era il dominio del profitto, non c’era. Quell’atmosfera aveva un senso perché legata a quella realtà. Tutto questo oggi non c’è più anche perché è svanita quella passione, mancano i salotti fumosi dove la gente andava e si incontrava per discutere di musica fino alle tre di notte. Quella del Music Inn è senz’altro il racconto di una vicenda umana, di un amore viscerale per la musica, lo stesso travolgente amore per il jazz di Pepito e di Picchi, e tra Pepito e Picchi. Personaggi, come moltri altri nel film, di un’altra epoca
Articolo del
28/01/2019 -
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